Svetlana

Flaubert si definiva un “uomo-penna”; io potrei dire di essere una “donna-orecchio”.
I miei libri sono le persone che raccontano.
Quando cammino per strada e colgo parole, frasi ed esclamazioni, mi dico sempre: quanti romanzi spariscono senza lasciare traccia!
Spariscono nell’oscurità.
C’è tutta una parte della vita umana, quella parlata, che non riusciamo a cogliere attraverso la letteratura.
Non l’apprezziamo per il suo valore, non ci stupisce, non ci appassiona.

C’è un punto di vista, una filosofia che più di ogni altra cosa fanno la grandezza di Svetlana Aleksievič come scrittrice, ed è quel fertile secondo sguardo capace di cogliere, nelle “piccole persone qualsiasi” elementi di verità e di grandezza umana fin lì passate inosservate e però degne di figurare nella letteratura maggiore.
Sergio Rapetti

Ragazzi zinco

Sto scrivendo un libro sulla guerra … Perché la guerra?
Perché siamo gente di guerra, noi: o l’abbiamo fatta o alla guerra ci preparavamo.
A ben guardare, pensiamo ancora come in guerra. A casa, per strada.
È per questo che da noi la vita umana ha così poco valore. Come in guerra, alla fine.

Mi sono posta innumerevoli volte la domanda: come attraversare il male, e scriverne, senza aumentarlo nel mondo, specie adesso che il male ha raggiunto proporzioni cosmiche?
A ogni nuovo libro torno a chiedermelo. È il mio fardello. È il mio destino.

Kabul 1

Che discorsi si sentono fare, di cosa scrivono i giornali?
Del dovere internazionalista, di geopolitica, dei nostri interessi di grande potenza, della sicurezza delle nostre frontiere meridionali.
Ma corrono anche certe voci sorde su funerali nei casermoni di prefabbricati e nelle casupole contadine coi pacifici gerani alle finestre; si mormora di bare di zinco troppo grandi per entrare nei minuscoli alloggi d’epoca chruščëviana.

Fedele al proprio assunto di indagare l’anima delle persone a tutto campo e di prestare orecchio ai racconti di tutti – in ogni uomo e donna, ama dire la scrittrice, c’è almeno una pagina di grande letteratura e verità che aspetta solo l’occasione di esprimersi – nel 1985 decide di occuparsi della guerra che l’Armata Rossa sta conducendo da più di cinque anni in Afghanistan.
Sergio Rapetti

Nella sala d’aspetto semivuota di una stazione di autobus avevo notato, accanto a un ufficiale seduto su una panchina con una valigia, un ragazzo magro, rasato a zero come i militari, il quale armeggiava attorno a un ficus rinsecchito scavando con una forchetta nella terra del vaso. Alcune donne si erano avvicinate e con semplicità contadina avevano chiesto da dove venissero, dov’erano diretti, chi erano.

L’ufficiale aveva spiegato che stava riportando a casa quel soldato al quale aveva dato di volta il cervello: “Dopo Kabul non fa altro. Scava dei buchi con tutto quello che gli capita tra le mani: una vanga, una forchetta, un bastone o una stilografica”.
Il ragazzo aveva alzato gli occhi: “Dobbiamo nasconderci … Adesso scavo una trincea … Non mi ci vuole molto … Le chiamavamo fosse comuni … Ne scavo una grande che basti per tutti”.

Era la prima volta che vedevo due pupille grandi come gli occhi.

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La guerra non ha volto di donna

Il villaggio della mia infanzia dopo la guerra era un villaggio femminile.
Di sole donne.
Non
ricordo una sola voce maschile.
E così questo mi è rimasto: la guerra la raccontano le donne.
Piangono. O cantano ma anche questo è pianto.

La guerra delle donne. Una guerra senza eroi. Senza eroiche uccisioni di altri esseri umani. Mi è rimasta impressa la trenodia di una di queste donne:
– Se dopo uno scontro andavi sul campo di battaglia, li trovavi tutti per terra. Tutti giovani, tutti belli. E tutti per terra con gli occhi al cielo. Che dolore: per i nostri e per gli altri -.
Fu proprio quel “per i nostri e per gli altri» a suggerirmi di cosa avrei scritto.
E cioè del fatto che “guerra” vuol dire ammazzare. Perché così è rimasta nella memoria delle donne.

Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. Che nasce da percezioni prettamente “maschili”. Rese con parole “maschili”.
Nel silenzio delle donne. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte.
Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra “femminile” ma quella “maschile”. Si adattano al canone invalso. E solo in casa, o piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. Ed è una guerra sconosciuta.

Per due anni questo libro non è stato pubblicato. Fino alla perestrojka.
Chi vorrà più andare a combattere dopo libri del genere? La sua guerra è solo orrore – mi erudiva il censore – Come mai non ci sono eroi?
Non ci sono perché non li ho cercati.

Ultimi

Gli ultimi testimoni

Nell’estate del 1941 le truppe tedesche invadono la Bielorussia, allora parte dell’URSS, e occupano Minsk.
I protagonisti di questo libro sono i bambini e i ragazzi bielorussi e russi, sopravvissuti e diventati adulti, che hanno vissuto la terribile quotidianità di quegli anni di guerra e che non volevano ricordare.

Eravamo affamati e camminavamo a fatica. Avevamo le gambe a pezzi. Camminavamo e un partigiano mi chiede: “Cosa vorresti trovare sotto l’albero? Delle caramelle, dei biscotti? Un pezzetto di pane?”. Gli ho risposto: “Una manciata di proiettili”. Odiavo talmente i tedeschi … per la mamma … per tutto … Ricordo che dopo la guerra al villaggio avevamo un solo abbecedario e che il primo libro che ho trovato da leggere era un manuale di esercizi di aritmetica. Lo leggevo come se fosse una raccolta di poesie. 
Sasa Kavrus, 10 anni, oggi ricercatore in Filologia

Milioni di bambini sono morti in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Ma un bambino che è stato strappato dal suo microcosmo familiare, defraudato della sua infanzia e ha avuto la guerra come un unico orizzonte di vita resta ancora un bambino?

Una volta Dostoevskij si pose questo interrogativo: Come potremo mai giustificare il mondo, la nostra felicità e l’armonia eterna se in loro nome, nel nome della solidità dei fondamenti sui quali riposano, si dovrà versare sia pure una sola lacrima di bambino? Nessun progresso, nessuna rivoluzione, nessuna guerra potrà mai valere anche quella sola lacrima. Essa peserà per sempre. Quella sola piccola lacrima …

Cernobil

Preghiera per Černobyl’

Per molto tempo non ho voluto scrivere di Černobyl’.
Non sapevo come farlo, con quali strumenti e da dove cominciare.
Il nome del mio piccolo paese sperduto ai confini dell’Europa, e di cui fino a poco prima il mondo non aveva mai sentito parlare o quasi, a un certo punto risuonava in tutte le lingue, e noi bielorussi eravamo diventati il popolo di Černobyl’.

Cambiò il mondo. Cambiò il nemico. La morte ebbe facce nuove che non conoscevamo ancora. Non si vedeva, la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole, per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi. Perché niente di simile era mai accaduto, prima. Il mondo era il solito e non era più lo stesso.

Una mattina esco di casa – mi ha raccontato un vecchio apicoltore – e ho l’impressione che manchi qualcosa, un qualche suono familiare. Non c’era neanche un’ape … Neanche un’ape si sentiva. Neanche una! Niente api il giorno dopo e nemmeno quello dopo ancora … In seguito ci hanno detto del guasto alla centrale atomica poco distante. Ma per giorni non abbiamo saputo niente. Lo sapevano le api. Noi no.

Per tre anni ho viaggiato e fatto domande a persone di professioni, destini, generazioni e temperamenti diversi. Questi uomini e queste donne sono stati i primi a vedere solo ciò che noi possiamo supporre …
Più di una volta ho avuto l’impressione che in realtà io stessi annottando il futuro.

Tempo II mano

Tempo di seconda mano

Ci stiamo congedando dall’epoca sovietica. Che è come dire: dalla nostra stessa vita.

Per alcuni anni ho percorso in lungo e in largo l’ex Unione Sovietica perché l’homo sovieticus non è solo russo, oltre a quello russo c’è il bielorusso, il turkmeno, l’ucraino, il kazako … Attualmente viviamo in diverse nazioni, parliamo lingue diverse ma restiamo inconfondibili. Ci facciamo subito riconoscere!
Noi tutti, gente del socialismo, siamo simili all’altra gente ma al tempo stesso ce ne distinguiamo; abbiamo un nostro vocabolario, idee nostre del bene e del male, degli eroi e dei martiri. Anche il nostro rapporto con la morte è tutto speciale.

Nei racconti che vado annotando ricorrono spesso parole che feriscono l’orecchio: “sparare”, “fucilare”, “liquidare”, “mettere al muro” o versioni sovietiche dello “scomparire senza traccia” quali “arresto”, “dieci anni senza diritto alla corrispondenza”, “emigrazione”. Veniamo tutti da laggiù, dal gulag e da una guerra atroce. La collettivizzazione, la dekulakizzazione, la deportazione di interi popoli…

Come mai nel libro ci sono così tanti racconti di suicidi e non di sovietici qualsiasi con delle vite sovietiche ordinarie? Questa per la Russia è una vera novità e neanche la letteratura russa aveva mai visto niente di simile. In generale noi siamo dei militi. Quando non stavamo combattendo ci preparavamo a farlo. Non abbiamo mai vissuto in altro modo. È da qui che viene la nostra psicologia guerresca. Anche in tempo di pace tutto era come in guerra. Ho rievocato quei tempi parlandone con i miei personaggi. Uno di loro mi ha detto: “Solo un sovietico può capire un altro sovietico.” Avevamo tutti una sola memoria.

Quando l’impero sovietico è crollato noi democratici avevamo una visione romantica.
Ci immaginavamo un avvenire simile ad altri popoli europei. Ci dicevamo: dopo decenni di isolamento, la Russia torna a far parte del mondo. Pensavamo di essere alla vigilia di una specie di seconda vita (ma non di seconda mano): decente e dignitosa.

Alek 1
Svetlana Aleksievič in dialogo con Goffredo Fofi (prima parte – link)

Alek 2
Svetlana Aleksievič in dialogo con Goffredo Fofi (seconda parte – link)

Di guerra in guerra

Morin riflette su come, di fronte agli orrori della guerra, sia vitale saper non semplificare, perché “ogni guerra racchiude in sé manicheismo, propaganda unilaterale, isteria bellicosa, menzogna, preparazione di armi sempre più mortali, errori e illusioni, imprevisti e sorprese”.

E richiama l’attenzione su un fatto ineludibile: la nuova guerra accade in un tempo in cui ovunque domina un pensiero incapace di concepire la complessità dei fenomeni, un pensiero lineare, meccanicista, che frammenta ciò che nella realtà è strettamente connesso.
Mauro Cerutti

Morin
Di guerra in guerra Il nuovo umanesimo – Matteo Saudino (estratto video – link)