non si tratta più di creare
l’essenziale è ciò che si è osservato
Joseph Roth
nel cuore della mitteleuropa, una retrospettiva del ‘900
- Esch o l’anarchia (I sonnambuli, volume II) pp. 274 (1932)
Hermann Broch (1886 – 1951)

Hermann Broch è riuscito a discendere sino alle radici dell’amore e dell’angoscia, al fondo dello smarrimento epocale vissuto e patito da ogni individuo.
Claudio Magris
Scrivere significa per me voler conquistare conoscenza attraverso la forma, e una nuova conoscenza può essere creata solo attraverso una nuova forma. Un’opera che non rappresenta una nuova conoscenza ha perso il suo autentico significato.
Hermann Broch
- Tre donne pp. 216 (1924)
L’uomo senza qualità (Una specie di introduzione) pp. 74 (1930)
Robert Musil (1880 – 1942)

Musil, infatti, voleva fare molto di più che scrivere un romanzo, più che raccontare la storia della Kakania in declino, più che sottoporre a critica le logorate idee dell’epoca.
Tuttavia, egli non voleva – ciò che di tanto in tanto gli si rimprovera – travalicare le sue competenze.
Di questo fu sempre consapevole: «Lo scrittore non può e non deve spingersi fino a delineare un sistema filosofico».
Ingeborg Bachmann
Da ogni grande libro si effonde quello spirito che ama i destini dei singoli individui perché essi non tollerano le forme che la collettività vuole imporre loro. Ciò determina scelte per le quali non si può scegliere; di costoro si può solo riprodurre la vita.
… una poesia con il suo mistero recide di netto il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole banali, e ne fa un pallone che vola via. Se questo, come d’uso, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebbe rappresentare un sovvertimento indicibilmente più spietato e crudele di qualsiasi rivoluzione politica.
L’uomo senza qualità
- Il figlio del figlio perduto pp. 320 (1934)
Soma Morgenstern (1890 – 1976)

Soma Morgenstern sarebbe potuto diventare uno scrittore yiddish e così essere uno dei pionieri di una letteratura promettente, nata tardi e assassinata ancora in fasce (ma non per questo meno grandiosa) nelle camere a gas.
E magari sarebbe stato un socialista e avrebbe auspicato la morte del Messia e la nascita di un nuovo Messia, «l’operaio che alza in alto la bandiera della libertà», come recita una poesia dei primi del Novecento.
Oppure possiamo immaginarlo alle prese con la rinata lingua ebraica, uno di quei personaggi che hanno inventato le parole moderne e modi di narrare consoni al Ventesimo secolo, uno scrittore partecipe dell’impresa sionista e della creazione di un canone letterario di un idioma millenario, che ha prodotto negli ultimi decenni autori dalla prosa potente come Abraham B. Yehoshua e Amos Oz o poeti sublimi e teneri come Yehuda Amichai o Leah Goldberg.
Così, nacque un grande scrittore austriaco di lingua tedesca, ebreo, per decenni dimenticato e riscoperto postumo, ma fin troppo spesso incasellato come «amico di Joseph Roth».
Lo era davvero e condivise con Roth il pane salato dell’esilio a Parigi.
Włodek Goldkorn
- Fuga senza fine pp. 151 (1927)
Giobbe. Il romanzo di un uomo semplice pp. 195 (1930)
Joseph Roth (1894 – 1939)

Nelle pagine seguenti racconterò la storia del mio amico, compagno d’armi e di idee, Franz Tunda.
Seguirò in parte i suoi appunti, in parte quel che mi ha raccontato.
Non ho inventato, né aggiustato nulla.
Ormai non si tratta più di creare. L’essenziale è ciò che si è osservato.
Parigi, marzo 1927 (Fuga senza fine)
Roth teorizza esplicitamente l’impossibilità di scrivere il romanzo della sua stessa generazione, di estrarre l’essenziale e di tracciare la sintesi di quella sbandata gioventù del dopoguerra cui egli stesso apparteneva e la cui tristezza consisteva «nell’incapacità di raccontare la propria tristezza», nell’impossibilità di esprimersi e di esprimere il proprio dramma.
Quale dichiarazione programmatica, prelude alla svolta tecnica e spirituale che avrà luogo con Giobbe …
… Il passato – non un’età ben precisa ma il passato in sé – offre a Roth la garanzia e la sicurezza del noto, di ciò che è già accaduto e di cui si può quindi narrare la storia.
Non a caso Giobbe nasce dopo che il viaggio in Russia del 1926 e le altre disillusioni politiche avevano spento il suo impegno radicalsocialista …
… È un romanzo del padre: il protagonista è Mendel Singer, non i suoi figli le cui vicende hanno per così dire un carattere funzionale, in quanto fungono da contrappunto e pretesto alla storia del padre e solo rispetto ad essa acquistano un reale significato …
Claudio Magris
- Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo pp. 460 (1934 – 1942)
Stefan Zweig (1881 – 1942)

Nella premessa al suo memoir autobiografico Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo – scritto a partire dal 1934 e concluso nel 1941, nell’esilio brasiliano, ormai bandito da un’Austria e da una Germania naziste che l’avevano ripudiato in quanto ebreo e scrittore – Zweig racconta di avere l’impressione di «non aver vissuto una sola esistenza, ma tante, del tutto diverse l’una dall’altra».
Una vera esperienza di lettura.
Che è in fondo una faccenda molto personale, unica, persino intima. Un corpo a corpo con un testo, con una scrittura, uno spazio rubato al tempo ufficiale. E con Zweig più che mai. Perché questi personaggi, questi “uomini sulla soglia” ci ricordano un po’ dove dovremmo trovarci anche noi: abitano quel discrimine, quel confine silenzioso, a volte sottile come un filo, a volte terrorizzante come un baratro, che unisce e separa le cose che accadono e quelle che si scrivono.
Silvia Montis
- Il processo pp. 260 (1915 – traduzione Primo Levi)
Franz Kafka (1883 – 1924)

Di che cosa si deve vergognare Josef K., quello stesso che aveva deciso di combattere fino alla morte, e che in tutte le svolte del libro si proclama innocente?
Si vergogna di molte cose contraddittorie, perché non è coerente, e la sua essenza (come quella di quasi tutti) consiste nell’essere incoerente, non uguale a se stesso nel corso del tempo, instabile, erratico, o anche diviso nello stesso istante, spaccato in due o più individualità che non combaciano.
Ma sento, in questa vergogna, un’altra componente che conosco: Josef K., alla fine del suo angoscioso itinerario, prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto, che pervade tutto quanto lo circonda, e a cui appartengono anche il cappellano delle carceri e le bambine precocemente viziose che importunano il pittore Titorelli.
È finalmente un tribunale umano, non divino: è fatto di uomini e dagli uomini, e Josef, con il coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo.
Primo Levi
- La notte dei Girondini pp. 113 (1975 – traduzione Primo Levi)
Jacob Presser (1899 – 1970)

Su questo racconto sono caduto per caso, parecchi anni fa; l’ho letto, riletto molte volte, e non mi è più uscito di mente. Forse vale la pena di ricercarne il perché: le ragioni per cui ci si affeziona a un libro possono essere molte, alcune decifrabili e razionali, altre oscure e profonde.
Non è detto che chi si affeziona a un libro, o a una persona, non ne veda più i difetti. Questo libro ne ha, e forse gravi; lo stile è incerto, oscilla fra la commozione e il badinage … è un libro discutibile, e forse scandaloso, ma è bene che gli scandali avvengano, perché provocano discussione e chiarimento delle coscienze.
Primo Levi
- Intellettuale ad Auschwitz pp. 176 (1966)
Jean Amery (1912 – 1978) - I sommersi e i salvati pp. 196 (1986)
Primo Levi (1919 – 1987)

La più dura realtà esperita da Améry ad Auschwitz è la precarietà dello spirito, il suo incepparsi, la sua difficoltà e incapacità di trascendere le cose. Geist, spirito, significa intelligenza, cultura, moralità, pensiero ossia facoltà di trascendere la cieca immediatezza dell’oggetto, di mediare e superare il viscerale caos dell’immediato.
Améry mostra come nel Lager non esista questa trascendenza spirituale e culturale; tutto è l’immediatezza, sovranità brutale dell’impulso elementare, come nella fame, nella reazione fisica del corpo alla tortura, nella promiscuità e nel dolore delle percosse.
Améry è un grande, geometrico poeta di questa assoluta, primaria realtà del corpo e dei tragici momenti in cui essa si dilata e si espande sino a diventare, tirannicamente e totalitariamente nel senso forte della parola, l’unica e globale realtà dell’Io.
Claudio Magris
Il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa.
Non si leggono senza spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo austriaco torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga, e poi deportato ad Auschwitz perché ebreo:
Chi è stato torturato rimane torturato. (…) Chi ha subito il tormento non potrà piú ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista piú.
La tortura è stata per lui una interminabile morte: Améry, di cui riparlerò al capitolo sesto, si è ucciso nel 1978.
Primo Levi
- Infelicità senza desideri pp. 96 (1972)
Peter Handke (1942) - L’origine. Un accenno pp. 130 (1975)
Thomas Bernhard (1931 – 1989)

È nel sogno che la storia di mia madre si lascia per breve tempo afferrare: perché allora i suoi sentimenti diventano così fisici che io li vivo come una controfigura, e mi identifico con essi; ma questi sono proprio quei momenti di cui già si parlava, dove l’estremo bisogno di comunicare coincide con un’estrema incapacità di parlare.
Infelicità senza desideri
Doppiamente esclusa, doppiamente ferita, doppiamente estranea, a sé e al suo mondo, la madre di Infelicità senza desideri rivela sul nostro presente molto più di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi da una storia di lutto e di dolore.
Marco Dotti
Ormai la maggior parte del nostro tempo anziché a scuola oppure nelle sale di studio e quindi alle prese con le materie di studio, la passavamo nelle gallerie che fungevano da rifugi antiaerei, gallerie che, come avevamo potuto osservare per mesi e mesi, erano state scavate nei due monti della città, in condizioni assolutamente disumane, da uomini stranieri condannati ai lavori forzati, in prevalenza russi e francesi e polacchi e cechi.
L’origine. Un accenno
Ripercorrendo questo destino di frasi, che costituiscono gli unici eventi che propriamente accadono nei suoi testi, Bernhard ritorna sulle orme dell’esistenza propria e degli altri uomini, ed è proprio in questo musicale ricadere continuo di una frase su un’altra frase che Bernhard dà voce al più potente strazio e alla più struggente commozione che si levano dal destino degli uomini.
Aldo Gargani

