
Era il 1989, eravamo in un’aula al primo piano del dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università di Parma, in viale San Michele, la professoressa Siclari ha letto, in russo, una poesia di Anna Achmátova e io, avevo cominciato da poco a studiare russo, non ci ho capito niente, ma l’effetto di quella lettura, di quei suoni, di quel significante, privo, per me, di significato, era stato il fatto che la stanza dove eravamo si era dipinta di blu, era diventato tutto leggero e era stato chiarissimo, non avevo più dubbi: avrei studiato il russo per il resto della mia vita.

Vi avverto che vivo per l’ultima volta – MACERATA RACCONTA – Presentazione (estratto video – link)
«E noi, che cosa stiamo diventando? E io, cosa sono diventato?» si chiede Paolo Nori. E la risposta viene da una lontananza che in verità brucia distanze e porta con sé, come fosse turbine di visioni, di fatti, di sentimenti, e naturalmente di poesia, la vita di Anna Achmátova.
«Vogliamo raccontare» dice Nori «la storia di Anna Achmátova, una poetessa russa nata nei pressi di Odessa nel 1889 e morta a Mosca nel 1966. Anche se Anna Achmátova voleva essere chiamata poeta, non poetessa, e non si chiamava, in realtà, Achmátova, si chiamava Gorenko; quando suo padre, un ufficiale della Marina russa, seppe che la figlia scriveva delle poesie, le disse “Non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli”. Allora lei, invece di smettere di scrivere versi, pensò bene di cambiar cognome. E prese il cognome di una sua antenata da parte di madre, una principessa tartara: Achmátova.»
«Con la sola inclinazione del capo – come ebbe a dire Iosif Brodskij, suo amico e futuro premio Nobel – ti trasformava in homo sapiens».
«Le sue opere ci dicono delle cose memorabili, di lei, del mondo, e di noi, e se, invece che il poeta, avesse fatto l’ingegnere navale (il padre di Anna Achmátova era ingegnere navale, come Dostoevskij), ne sapremmo meno, di lei, del mondo, e di noi».

Anna Achmàtova appartiene alla categoria dei poeti che non hanno né una genealogia né uno sviluppo ben individuabile. È uno di quei poeti che semplicemente avvengono.
In certi periodi della Storia c’è solo la poesia che sia capace di guardare la realtà condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che in nessun altro modo la mente riuscirebbe a trattenere.
In questo senso, tutta una nazione prese il nom de plume di Anna Achmátova: il che spiega la sua popolarità e, fatto più importante, le permise di parlare per la nazione e di dirle cose che essa, la nazione, non sapeva.
I versi dell’Achmátova … sopravvivranno perché il linguaggio è più antico dello Stato e perché la prosodia sopravvive sempre alla Storia.
Si può dire anzi che non ha bisogno della Storia; tutto quello di cui ha bisogno è un poeta; e proprio questo, nient’altro che questo, era l’Achmátova.
Iosif Brodskij – La musa in lutto in Il canto del pendolo

Dopo che Requiem fu composto, le migliori amiche dell’Achmátova, Lidja Čukovskaja, Nadežda Mandel’štam e Emma Gerštein provvidero a memorizzarlo, e non fu questo il solo caso di Fahreneith 451 di quegli anni …
Michele Colucci
Requiem è un canto dolente per tutti i dolenti: madri che perdono i figli, mogli che diventano vedove, donne che a volte subiscono entrambe le perdite.
È una tragedia in cui il coro perisce prima dell’eroe. Nessuna Anna Gorenko saprebbe resistere. Anna Achmátova vi riuscì; ed è come se avesse saputo, nell’assumere questo pseudonimo, ciò che il destino aveva in serbo per lei.
Iosif Brodskij – La musa in lutto in Il canto del pendolo

Il potere contro la poesia – Achmatova e Mandel’štam – Lezioni di Poesia (estratto video – link)
Requiem
1935 – 1940
No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere:
io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era.
In luogo di prefazione
Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
– Ma questo lei può descriverlo?
E io dissi:
– Posso.
Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.
Leningrado, primo aprile 1957
Ho appreso come si infossano i volti,
come dalle palpebre si affaccia la paura …
E non per me sola prego,
ma per quanti erano là con me
nel freddo crudele, nell’afa di luglio,
sotto la rossa, accecata muraglia.
E se un dí pensassero in questo paese
di erigermi un monumento,
acconsento ad essere celebrata
ma solo ad un patto: non porre la statua
accanto al mare ove nacqui –
col mare ho reciso l’estremo legame –
o nel parco dello zar, presso il fatale ceppo
dove mi cerca l’ombra sconsolata,
ma qui, dove stetti trecento ore e dove
non mi apersero i chiavistelli.
Marzo 1940, Casa della Fontanka

L’Achmátova è poeta di metri rigorosi, rime esatte e frasi brevi.
Le sue rime non sono perentorie, il metro non è insistente.
A volte faceva cadere una sillaba o due nell’ultimo o penultimo verso di una strofa per creare l’effetto di un nodo alla gola o di un improvviso imbarazzo causato dalla tensione emotiva.
Ma più in là non andava, perché si sentiva perfettamente a suo agio entro i confini del verso classico.
L’Achmátova dispiega tutta la finezza emotiva e la complessità psicologica della prosa russa dell’Ottocento, tutta la dignità che ha appreso dalla poesia di quel secolo.
Iosif Brodskij – La musa in lutto in Il canto del pendolo

14 luglio 1939
L’ho accompagnata lungo il Nevskij fino all’angolo con via Sadovaja. È arrivato il suo tram. Sono rimasta a guardare mentre saliva sul predellino, entrava, afferrava il corrimano, apriva la borsa … con il vecchio impermeabile, il vecchio, ridicolo cappello che somiglia a un berretto da bambino, le scarpe scalcagnate – elegante, il viso spendido, la grigia frangia spettinata. Un tram come tanti. Persone come tante. E nessuno si è accorto che era proprio lei.
18 maggio 1939
Stasera una telefonata: Anna Andreevna mi prega di andare da lei. Ma io non posso, devo restare a casa. È venuta lei. Siede sul divano in camera mia – magnifica, il profilo come quello di una medaglia -, e fuma. È venuta a chiedermi consiglio. «Ecco qui, ho ricevuto questa lettera».
Il testo della lettera: “Pubblicheremo con piacere … Ma mandate più materiale per facilitare la scelta”.
«Ecco, va così da vent’anni. Non ricordano e non sanno niente. “Facilitare la scelta”! Non smettono mai di meravigliarsi delle mie nuove poesie: ogni volta sperano di trovarci finalmente qualcosa sui kolchoz. Una volta, qui a Leningrado, mi chiesero di portare delle poesie. Le portai. Poi mi chiesero di ripassare per parlarne. Ci andai: “Perché i vostri versi sono così tristi?”. Risposi che evidentemente una simile assurdità si spiegava con le particolari caratteristiche della mia biografia».
… la conversazione sulla prosa di Puskin ci porta a Tolstoj. Anna Andreevna ne parla con leggera ironia. E poi una violenta tirata contro Anna Karenina:
«Non avete forse notato l’idea principale di questo capolavoro? Se una donna lascia il marito legittimo per mettersi con un altro uomo diventa inevitabilmente una prostituta. E come è disgustoso l’atteggiamento di Tolstoj verso Anna! All’inizio ne è semplicemente innamorato, la ammira, si compiace dei riccioli neri sulla nuca … E poi comincia a odiarla, ride perfino sul suo corpo senza vita … “impudicamente allungato”, ricordate?».
Non discuto. Non dico nulla: mi interessa troppo sentire quello che dice. Capisco, sta dalla parte delle donne. Ma in generale, è evidente, non ama Tolstoj.
«Sono molto amica di sua nipote Sonja. Mi ha dato un album perché vi scrivessi qualcosa. In quell’album c’è tanto di chiuso – l’aria bigotta di Jasnaja Poljana».
Lozinskij le ha portato l’Inferno.
«È una traduzione eccellente» dice. «La leggo con enorme piacere. Ci sono alcune cose un po’ forzate, ma sono poche. La leggo al tavolino, confrontandola con l’originale».
Io, con la mia tipica capacità di dire spropositi senza pensarci due volte, le chiedo se conosce l’italiano. Lei, solenne e umile: «È tutta la vita che leggo Dante».
9 agosto 1939
Oggi, mentre ero da Anna Andreevna, ho notato un quadretto alla parete.
Un incantevole disegno a matita: il suo ritratto. Mi ha permesso di staccarlo dal muro e di osservarlo da vicino. Modigliani. «Capite, a lui non interessava la somiglianza. Gli interessava la posa. Mi ha ritratto una ventina di volte. Capii subito che era destinato a cose grandi. Questo a Parigi. Poi, in Russia, chiedevo di lui a tutti quelli che arrivavano dall’estero: non ne avevano mai sentito neanche il nome. Ma poi si pubblicarono saggi e interi libri su di lui. E adesso tutti mi chiedono: ma veramente lo avete conosciuto?».
Lidja Čukovskaja, Incontri con Anna Achmátova

Probabilmente io e lui non capivamo una cosa fondamentale: tutto quello che avveniva era per noi la preistoria della nostra vita: la sua molto breve, la mia molto lunga. Il respiro dell’arte non aveva ancora bruciato, trasformato queste due esistenze: e quella doveva essere l’ora lieve e luminosa che precede l’aurora.
Lo conobbi che era povero, tanto che non si sapeva come facesse a vivere; come artista non aveva riconoscimento alcuno. Egli non si lamentava per niente, né della sua reale miseria, né del fatto che non avesse riconoscimenti. Solo una volta, nel 1911, mi disse che l’inverno precedente era stato così brutto per lui, da non aver potuto neppure pensare a ciò che gli era più caro.
Con me non parlava mai di cose terrestri. Era molto cortese, non per l’educazione ricevuta, ma per la profondità del suo spirito. In quel tempo si occupava di scultura: lavorava in un cortile, vicino al suo atelier; nel vicoletto vuoto si sentivano i colpi del suo martello. Le pareti del suo laboratorio erano ricoperte da ritratti di incredibile lunghezza (ora mi sembra dal pavimento al soffitto).
In quel tempo Modigliani sognava l’Egitto. Mi portò al Louvre perché visitassi la sezione egizia; affermava che tutto il resto, «tout le reste», non era degno di attenzione. Disegnò la mia testa in acconciatura di regina egizia o di danzatrice, e sembrò del tutto preso dalla grande arte dell’antico Egitto.
Quando c’era la pioggia (come spesso a Parigi), Modigliani camminava con un enorme ombrello nero molto vecchio. Talvolta sedevamo sotto questo ombrello su una panchina del Giardino del Lussemburgo, pioveva, una calda pioggia estiva, vicino sonnecchiava le vieux palais à l’italienne, e noi a due voci recitavamo Verlaine, che tanto amavamo e sapevamo a memoria, felici di ricordare le stesse poesie.
Bolsevo 1958
Mosca 1964
Anna Achmátova Amedeo Modigliani e altri scritti
“Qualche volta
la pagina vuota
presenta
molte possibilità”
O preferiresti essere un pesce?
La poesia in traduzione, l’impermeabile,
Jim Jarmusch,
Rod Padgett,
Paterson, Paolo Nori, Anna Achmàtova

