Presentazione del percorso 2023/2024

la memoria e l’arte di unire le crepe

Il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate

Pierluigi Cappello

● 19 ottobre
Frattura – Andrés Neuman (2018, pp. 408)
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È agli scrittori come Neuman che apparterrà la letteratura del ventunesimo secolo.
Roberto Bolaño

Neuman (1)

Il kintsugi è un’antica pratica giapponese che prevede l’utilizzo dell’oro – o di un altro metallo prezioso – per saldare i frammenti di un oggetto rotto.
Il kintsugi è la celebrazione delle cicatrici, l’elogio delle linee di frattura.
Tutte le cose rotte, hanno qualcosa in comune. Una crepa che le unisce al loro passato.
Frattura è la storia di Yoshie, di un uomo ferito, alla ricerca instancabile dell’oro che possa risanare tutte le fratture di una vita.
Hibakusha è il termine giapponese per definire un sopravvissuto, composto da tre ideogrammi: hi che significa ricevere o subire; baku che sta per esplosione e sha che indica persona.

Se ci pensi, la prima immagine della bomba atomica che ti viene in mente non è quella delle vittime. È il fungo.
Prima di tutti i morti vedi l’esplosione.
Per questo i sopravvissuti, che se ne rendessero conto o meno, erano già ribelli.
La loro semplice esistenza era contestataria, perché non era prevista.
A Hiroshima e a Nagasaki, non c’era nulla cui ribellarsi o arrendersi. Era contro tutti e senza nessuno. Dico che era il futuro.
I giapponesi preferiscono nominare concretamente il modo in cui una persona muore.
Di vecchiaia, in combattimento, per amore, in un incidente.
In questo modo ti suggeriscono che tipo di vita ha avuto quella persona.
Non esiste la morte in generale, per così dire, ma le morti degli individui.
Ma a Hiroshima e a Nagasaki questa cosa è venuta meno.
Si sono spezzati il concetto e la lingua.
Perché in quei casi c’era stata la morte.
Un sostantivo di massa.
(Frattura)

● 16 novembre
La bambina che non doveva piangere – Giuseppe Culicchia (2023, pp. 228)

La notte in cui la polizia suona il campanello di casa, il 15 dicembre del ’76, Ada capisce subito che la Storia è venuta a prendersi quanto ha di più caro al mondo.

La bambina

Giuseppe Culicchia tiene in serbo queste pagine da più di quarant’anni. Perché la morte di Walter Alasia, al cui nome è legata la colonna milanese delle Brigate Rosse, è una storia dolorosa che lo tocca molto da vicino: per il Paese è un fatto pubblico, uno dei tanti episodi che negli anni di piombo finivano tra i titoli dei quotidiani e dei notiziari televisivi; per lui e la sua famiglia è una ferita che non guarirà mai.
Culicchia ricostruisce ciò che da bambino sapeva di Walter, scavando nei propri ricordi alla ricerca dei germi di ciò che sarebbe stato, e lo confronta con quello che crescendo ha appreso di lui dalla sua famiglia, ma anche dai giornali e dai libri di storia.
E così facendo racconta gli anni della lotta armata e del terrorismo da una prospettiva assolutamente unica.

14 dicembre
L’analfabeta – Agota Kristof (2004, pp. 52)

Il mondo è pieno di libri, di libri finalmente comprensibili, anche per me.

Kristof (4)

Undici capitoli per undici episodi di vita dell’autrice, dalla bambina che divora i libri in Ungheria alla scrittura dei primi libri in francese.
L’infanzia felice, la povertà del dopoguerra, gli anni di solitudine in collegio, la morte di Stalin, la lingua materna e le lingue nemiche (il tedesco, il russo e in un certo senso anche il francese), la fuga in Austria e l’arrivo a Losanna, profuga con un bambino.
Senza compatimenti e, anzi, con una buona dose di humor, narra una storia senza una parola di troppo.
Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, dalle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta.

Ieri – Agota Kristof (1995, pp. 93)

Kristof (3)

Una storia d’amore dura come un sasso. Bisogna avere una grande saggezza per raccontare una storia così, senza fronzoli e trucchi. Bisogna essersi lasciati alle spalle le bugie della letteratura e scegliere le parole nella loro povera sincerità. Diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori, dice Tobias, l’operaio- scrittore del romanzo.
Ieri è una lezione di stile, un grido assoluto che ci solleva fin dove l’aria è trasparente e tutto si vede chiaramente.
Marco Lodoli

● 18 gennaio
Vi avverto che vivo per l’ultima volta – Paolo Nori (2023, pp. 250)

Nori (1)

E noi, che cosa stiamo diventando? E io, cosa sono diventato? si chiede Paolo Nori.
Vogliamo raccontare – prosegue Nori – la storia di Anna Achmatova, una poetessa russa nata nei pressi di Odessa e morta a Mosca nel 19666. Anche se Anna Achmatova voleva essere chiamata poeta, non poetessa e non si chiamava, in realtà, Achmatova, si chiamava Gorenko; quando suo padre, un ufficiale della Marina russa, seppe che la figlia scriveva delle poesie, le disse “non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli”. Allora lei, invece di smettere di scrivere versi, pensò bene di cambiare cognome. E prese il cognome di una sua antenata da parte di madre, una principessa tartara: Achmatova.

Contro il giorno della memoria – Elena Loewenthal (2014, pp. 93)

Loewenthal (1)

Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato.

● 15 febbraio
La promessa – Friedrich Dürrenmatt (1959, pp. 191)

Un altro grande romanzo ‘giallo’ di Dürrenmatt, o meglio, un antiromanzo ‘giallo’. La promessa liquida infatti, con un massimo di crudeltà e di finezza, il genere poliziesco colpendolo proprio alla radice, cioè nella sua favolosa e assoluta razionalità. Gli elementi di genere ci sono tutti, ma sono parodisticamente distorti, deformati come in uno specchio convesso.

Durrenmatt (2)

Il pensiero di Dürrenmatt è sottile, attento e spregiudicato.

Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo ad evitare il naufragio nell’assurdo che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero. La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario. Nel bagliore incerto che regna ai suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale.
Friedrich Dürrenmatt

Dürrenmatt si prenderà costantemente gioco della giustizia, fornendone spesso una visione distorta, divertendosi poi a fare intervenire il caso, l’imprevedibile, la coincidenza, mettendo così in ridicolo l’essere umano, che spesso è del tutto ignaro di quanto gli accade.

● 21 marzo
Era solo la peste – Ludmila Ulitskaya (1988, pp. 162)

Ulitskaya (1)

Di questa storia, che in URSS fu rigorosamente taciuta, venni a sapere dalla mia amica Natal’ja Rappoport. Suo padre, anatomopatologo, fu uno dei protagonisti della vicenda che si svolse a Mosca nel 1939: era lui a eseguire le autopsie dei morti di peste. Davvero le vittime allora furono soltanto tre; e davvero accadde che il ricercatore di un laboratorio dedicato alla preparazione del vaccino antipeste, contagiatosi nel corso di un esperimento, venisse quello stesso giorno chiamato a Mosca per tenere una relazione. L’individuazione dei contatti con il paziente zero fu affidata ai servizi segreti (NKVD). A dirigere l’operazione fu Berija. In quegli anni si era già abituati – se mai ci si può abituare – alle “visite” nel pieno della notte, alla sparizione delle persone e ai processi-lampo condotti dalle cosiddette “trojke” di ufficiali. Su questo sfondo, scoprire che quegli “arresti” erano dovuti “solo” a motivi di quarantena apparve come un dono del destino: tutti paventavano esili e fucilazioni.
Ludmila Ulitskaya

Ludmila Ulitskaya, scrittrice e sceneggiatrice, è nata nel 1943 negli Urali. Si è laureata in Biologia all’Università di Mosca e ha lavorato come scienziata presso l’Istituto di Genetica. All’inizio degli anni ottanta è diventata sceneggiatrice per l’Hebrew Theatre di Mosca e si è dedicata alla drammaturgia. Le sue opere sono tradotte in quarantacinque lingue.

Quel che stavamo cercando – Alessandro Baricco (2021, pp. 48)

Baricco (1)

La resa senza condizioni al metodo scientifico ci ha resi incapaci di leggere il mito, di capire la sua produzione e perfino di dare valore alla sua presenza nella vita degli umani. Ma solo civiltà in grado di riconoscere la produzione del mito, mettendola in rotazione con il lavoro di lettura della scienza, possono leggere il proprio destino correttamente. Con gli occhi della scienza si legge un testo privo di vocali. Erano così certe scritture arcaiche, poi rivelatesi insufficienti a dire il mondo.
(Quel che stavamo cercando)

Tornare Umani – Susanna Tamaro (2022, pp. 248)

Tamaro (1)

Credevamo di essere onnipotenti e sbagliavamo. Credevamo di aver capito tutto e non avevamo capito niente. Gli anni della pandemia hanno costituito un grande reset, per tante certezze e tante convinzioni, e il risultato è un trauma collettivo di cui oggi viviamo le conseguenze: una situazione di gravissimo contrasto sociale, patologie psicologiche diffuse in forme acute soprattutto tra i giovani, un’incertezza generale sul futuro. Dobbiamo ritrovare un filo di Arianna in ciò che abbiamo vissuto e usarlo per ricucire la trama della nostra convivenza, se vogliamo sopravvivere come specie.
(Tornare Umani)

● 18 aprile
Ragazzi di Zinco – Svetlana Aleksievič (1989, pp. 316)

Vorrei scrivere un libro sulla guerra tale da provocare nel lettore nausea e repulsione per essa, così che già la sola idea della guerra gli diventi odiosa. E ne veda la demenza. Un libro che renda l’idea della guerra nauseante per gli stessi generali.
I miei libri sono le persone che raccontano.
Scrivo, annoto la storia contemporanea nel quotidiano. Parole vive, vite e destini.
Prima di diventare storia esse, parole e vite, sono ancora la pena di qualcuno, il grido, il sacrificio o il crimine di qualcun altro.
Mi sono posta innumerevoli volte la domanda: come attraversare il male, e scriverne, senza aumentarlo nel mondo, specie adesso che il male ha raggiunto proporzioni cosmiche?
A ogni nuovo libro torno a chiedermelo. È il mio fardello. E il mio destino.

Aleksjevic (1)

Nessuno ha raccontato la guerra come Svetlana Aleksievič, instancabile raccoglitrice di storie e testimonianze, poi restituite nei suoi libri attraverso quella “scrittura polifonica” che nel 2015 le è valsa il premio Nobel per la Letteratura.
Dal luglio 1992 inizia in Bielorussia contro la scrittrice una campagna diffamatoria e che culmina nel 1993 in due procedimenti giudiziari istruiti a Minsk dove la scrittrice viene incriminata per calunnia, antipatriottismo e diffamazione: “Lei è contro i nostri soldati che hanno liberato mezza Europa. Non sappiamo che farcene della sua piccola storia, è della grande Storia che abbiamo bisogno. La storia della Vittoria. Lei non ama i nostri eroi! Lei non ama le nostre grandi idee. Da dove prende queste idee? Ci sono estranee. Non sono sovietiche. Lei irride coloro che giacciono nelle fosse comuni. Ha letto troppo Remarque. Ma da noi il remarquismo non passerà.”

Di guerra in guerra – Edgar Morin

In questo piccolo ma profondissimo libro, con la sua singolare capacità di concepire la complessità dell’umano, Edgar Morin riflette sulla tragedia della guerra tornata a devastare il cuore dell’Europa, attraverso l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Morin (2)

Morin riflette su come, di fronte agli orrori della guerra, sia vitale saper non semplificare, perché “ogni guerra racchiude in sé manicheismo, propaganda unilaterale, isteria bellicosa, menzogna, preparazione di armi sempre più mortali, errori e illusioni, imprevisti e sorprese”. E richiama l’attenzione su un fatto ineludibile: la nuova guerra accade in un tempo in cui ovunque domina un pensiero incapace di concepire la complessità dei fenomeni, un pensiero lineare, meccanicista, che frammenta ciò che nella realtà è strettamente connesso.
Mauro Cerutti

● 23 maggio
Piazza d’Italia – Antonio Tabucchi (1975, pp. 150)

Favola popolare in tre tempi, un epilogo e un’appendice.
Ripercorre la storia d’Italia dalla proclamazione dello stato unitario sino all’avvento della Repubblica, procedendo secondo il punto di vista di chi la Storia, piuttosto che farla, la subisce.
Protagonisti delle vicende narrate sono diverse generazioni di una famiglia di proletari, dai nomi evocativi e altisonanti quali Quarto, Volturno, Asmara, Garibaldo; quest’ultimo assurto addirittura a una sorta di patronimico, utilizzato come soprannome e “marchio” di identità familiare.
La Spedizione dei Mille, le guerre coloniali in Etiopia e Libia, l’emigrazione nelle Americhe, le guerre mondiali, il fascismo: tutte queste pagine di storia vedono protagonisti, spesso loro malgrado, i componenti della famiglia e gli altri abitanti di quel “mondo piccolo” costituito dall’immaginario paesino toscano di Borgo.

Piazza d'Italia

Scrissi Piazza d’Italia nel 1973 e lo pubblicai nel 1975. Allora scriverlo mi fece molta compagnia. Era una torrida estate in Toscana e io dovevo aspettare il settembre. 
Non mi resi conto, a quel tempo, che con questo libro sarei diventato uno scrittore.
Questo libro è le mie radici, di uomo e di scrittore.
Tutto torna o niente torna. Che lo dica chi se ne intende.
Antonio Tabucchi

● 20 giugno
Il responsabile delle risorse umane – Abraham Yehoshua (2002, pp. 258)

Il diritto? Il diritto? – L’urlo angosciato del proprietario della fabbrica di Gerusalemme sovrasta ora il frastuono dei macchinari. – Ma che dice?
Tutto questo non ha senso. – Un senso, signore, lo troveremo insieme.
Io, come sempre, l’aiuterò.

Yehoshua (1)

Il responsabile delle risorse umane è la storia di un dirigente di una fabbrica di Gerusalemme che produce pane e carta, inviato dal proprietario dell’azienda in una delle repubbliche ex-sovietiche per accompagnare alla sepoltura il corpo di un’addetta alle pulizie dell’azienda, immigrata, con permesso di soggiorno temporaneo e uccisa in un attentato kamikaze.

Nonostante il responsabile delle risorse umane non si fosse cercato questa missione, adesso, nella luce soffusa e radiosa del mattino, ne capiva il significato sorprendente. E quando, accanto al falò ormai moribondo, gli era stata tradotta – e aveva compreso – la richiesta incredibile della vecchia in abito da monaca, aveva provato un fremito di gioia e la Gerusalemme tormentata e ferita da cui era partito una settimana prima gli era riapparsa in tutto il suo splendore: quello dei giorni dell’infanzia.