
Ogni frase che pronunciamo nasce, cresce, si stabilizza, decresce, muore. Respira con noi. La voce crea, la voce salva.
La voce ha un potere magico. La voce evoca. Ex-vocare: trarre fuori.
La voce può evocare i morti, trarli fuori dalle tenebre.
Ma la voce è talmente misteriosa che può anche prescindere dalle onde sonore che i fonografi registrano e i fonologi studiano, perché la sua cassa di risonanza è il nostro cuore, o la nostra testa.
Essa ci suona “dentro”, come ha detto Kavafis, e solo noi possiamo sentirla.
Antonio Tabucchi – Autobiografie altrui

Antonio Tabucchi racconta Requiem. Quando si sogna in un’altra lingua (video – link)
Pensai: quel tizio non arriva più. E poi pensai: mica posso chiamarlo “tizio”, è un grande poeta, forse il più grande poeta del ventesimo secolo, è morto ormai da tanti anni, devo trattarlo con rispetto, meglio, con tutto il rispetto.
E adocchiai ai miei piedi la mia ombra, e anche lei mi parve assurda e incongrua, non aveva senso, era un’ombra corta, appiattita dal sole di mezzogiorno, e fu allora che ricordai: lui aveva fissato per le dodici, ma forse aveva voluto dire le dodici di notte, visto che i fantasmi appaiono a mezzanotte.
Requiem
Un vagabondaggio, un’allucinazione, uno scongiuro.
Un requiem che è un congedo dai fantasmi di una donna, di un padre, di un amico, di un poeta, di una casa, di una città.
Questo Requiem, oltre che una sonata, è anche un sogno, nel corso del quale il mio personaggio si trova ad incontrare vivi e morti sullo stesso piano: persone, cose e luoghi che avevano bisogno forse di un’orazione.
Ma, prima di tutto, questo libro è un omaggio ad un paese che io ho adottato e che mi ha adottato a sua volta, ad una gente cui sono piaciuto e che, a sua volta, è piaciuta a me.
Requiem ha il buffo primato di essere uno dei libri italiani più importanti degli ultimi cinquant’anni pur essendo stato scritto in portoghese.
Un po’ di tabucchismo non può che far bene, confondere il sonno e la veglia, prendere la vita come una cosa molto seria, ma anche come una cosa – qualsiasi cosa succeda – molto allegra.
Andrea Bajani

Il racconto è una forma chiusa e ha le sue regole interne, come il sonetto.
Scrivere un racconto significa misurarsi con la scrittura in modo diverso rispetto a scrivere un romanzo, o un saggio: si devono rispettare regole che sono abbastanza ferree, inventare una storia e concluderla nel giro di un certo numero di pagine e, soprattutto, lottare contro il tempo.
Come diceva Cortázar, lo scrittore di racconti sa che il tempo non è suo amico.
I racconti nascono abitualmente da una piccola frase, forse da quella che i poeti simbolisti francesi chiamano petite musique. Il testo si costruisce quasi da solo, con una notevole libertà in rapporto all’autore, perché in un certo senso è una creatura viva.
Il romanzo è in grado di sopportare una maggiore libertà: si può eliminarne un pezzo, correggerlo, introdurre elementi nuovi, e così via. La meccanica del romanzo assomiglia molto a una partita di scacchi, dove si sostiene un duello d’intelligenza con un avversario – il testo, in questo caso – le cui mosse si possono prevedere, ostacolare o assecondare.
Nel racconto, invece, il duello è impari e non esiste la possibilità di opporsi all’avversario, ci si deve rassegnare a lasciare che ci conduca dove vuole lui.
L’idea di giocare con una forma chiusa mi stimola particolarmente, però purtroppo mi pare che, in generale, la pratica del racconto stia diventando sempre più rara, perché il Novecento ha teso a mettere fine a questo tipo di forme.
Antonio Tabucchi

“Lo scrittore non deve restituire i fatti ma piuttosto la temperatura di un’epoca. La Storia è una creatura glaciale, non ha pietà di niente e di nessuno”: è dunque nello spazio del racconto che la pietà torna possibile, che la versione dei vinti può guadagnare spazio e spesso, più semplicemente, voce.
“La lingua appartiene al cielo, il corpo è una miseria fatta di carne, di ossa, di sangue, soffre se lo tocchi. La lingua no, non la puoi torturare.”
Si può essere, contemporaneamente, nell’ora e nell’allora.
Si può intuire che il tempo è “una cosa rotonda: sta lì e gira, e gira”.
Non ha una sola dimensione: e in questi racconti non c’è un personaggio che non se ne avveda, che non colga un’occasione – fornita dall’immaginazione, dalla memoria, dal sogno – per saltare oltre il “tic-tac, tic-tac” di una pendola appesa nell’anticamera. Sarebbe impreciso parlare di semplici ricordi.
A Tabucchi non interessa recuperare il tempo perduto: sa, sente, che passato, presente e futuro sono un filo aggrovigliato, che il bandolo è perso in partenza.
I “livelli di vita” esplorati da Tabucchi implicano sempre il visibile e l’invisibile, non come contrapposti ma complementari.
Come mostra splendidamente una scena di Per Isabel.
La protagonista, una presenza femminile ricorrente nell’intera opera, si manifesta a Tadeus come un’ombra tangibile, gli tende le mani:
“Ciao, disse Isabel, come vedi esisto ancora”. Il porticciolo è deserto, i due percorrono un pontile. Lei si mette un foulard intorno al collo e indica una stella. Lui, disorientato, le domanda: dove siamo? ”
E Isabel dà una risposta che vale per molte situazioni che non saprei definire se non tabucchiane:
“Siamo nel nostro allora”.
Ogni racconto di Tabucchi diventa un racconto fantastico anche quando resta crudamente ancorato a una vicenda storica: la realtà non è mai solo quella che si vede, ha sempre, per l’appunto, un suo rovescio; implica equivoci e coincidenze che ne rivelano l’ambiguità, il suo essere interpretabile all’infinito, e mai una volta per tutte.
Gli appartamenti in affitto (Introduzione a Che ore sono da voi?) Paolo Di Paolo
Antonio Tabucchi: il tempo, il rovescio, la Storia – Conferenza di Paolo Di Paolo
(video – link)
Lisboa, eléctrico 28 (video – link)
Antonio Tabucchi
raccontato da Paolo Di Paolo
(estratto audio – link)
Se di tutto resta un poco. Docufilm sulle tracce di Antonio Tabucchi (incipit – link)

