
Sono nato alle soglie dell’inverno, in montagna,
e la neve ha accompagnato la mia vita.
Che Mario Rigoni Stern esista, ha qualcosa di miracoloso.
In primo luogo, perché ha del miracolo la sua stessa sopravvivenza: quest’uomo così lontano dalla violenza è stato costretto dalla sorte a fare tutte le guerre del suo tempo, ed è uscito indenne ed incorrotto dai fronti francese, albanese e russo, e dal lager nazista.
Ma è altrettanto miracoloso che Rigoni sia quello che è, che sia riuscito a conservarsi autentico e schivo in quest’epoca di inurbamento suicida e di confusione dei valori.
Primo Levi, La ricerca delle radici

Mario Rigoni Stern non è un memorialista: la cura e la precisione storica sono necessarie per il dovere di testimoniare, ma le sue pagine divengono letteratura, assumono una valenza universale.
Esemplare in questo senso proprio Il sergente nella neve, che pur essendo fedele agli eventi, contiene una sola data e una sola indicazione di luogo: 26 gennaio 1943, Nikolajewka.
Ciò che è stato appartiene alla storia, quella grande e quella personale di tante tragiche esperienze, ma il suo raccontare – e la coscienza civile che traspare tra le righe – è letteratura.
Rigoni vuole rendere giustizia ai dimenticati e ai dispersi, ricordare i loro nomi.
Giuseppe Mendicino

Per un mese e mezzo, la durata del tempo del mio racconto, dimenticai tutto: persino la fame. Scrivevo sino al crepuscolo della sera (alle due del pomeriggio era già buio).
Ogni notte ricordavo, ogni mattino riprendevo a scrivere.
Perché l’ho fatto? Non certo con la presunzione che il mio scritto venisse stampato e letto. Mi sembrò necessario, allora, e urgente, dovermi liberare da qualcosa che avevo dentro, e realizzare tutto in parole con vocali e consonanti.
Fissare quello che avevo visto, per poterlo sempre ricordare.
Non era un diario personale: dovevo dire quello che era accaduto a migliaia di uomini come me.
Senza la strategia e la tattica, le scienze della guerra: narrare solamente una condizione umana. Tutto qui.
Mario Rigoni Stern – Ai miei giovani lettori

Battaglia di Postojalyi (foto con annotazioni di Mario Rigoni Stern – archivio Mendicino)
Era freddo, molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di munizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla neve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare.
E gli occhi non vogliono più stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro. Siamo senza gambe, senza braccia, senza testa, siamo solo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.
La sacca – Il sergente nella neve
Ma cosa rende, oggi ancora più di ieri, Il sergente nella neve davvero insostituibile? Basterebbe riportare l’incipit per entrare nel clima spirituale che il romanzo ci propone.
Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato.
Rigoni scrive con gli occhi e con il naso, poi viene la testa, ma sempre insieme al resto del corpo.
Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta dormivano. C’era un odore forte lì dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose.
Il paesaggio umano assorbe come una spugna quello naturale e lo restituisce in un rimbombo figurativo di forte spessore emotivo.
Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio.

Fuori c’è la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a quest’isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case.
I russi vengono ritratti nella medesima fragilità degli italiani: formidabile la scena in cui compaiono sui carri armati.
Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga.
Le entrate nelle isbe calde dove alcuni civili aiutano e soccorrono i nostri alpini sono epifanie liriche dentro il tunnel della ritirata: Come vogliamo chiamare la tregua istintiva che scatta fra gli avversari pronti a riconoscere in se stessi l’umana comune radice? Lo scrittore aveva composto una frase lapidaria in grado di riassumere tutto.
Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro.
Impossibile dirlo meglio.
Eraldo Affinati – Mario Rigoni Stern e le ragioni dell’uomo

Mario Rigoni Stern ha vissuto questo secolo come un personaggio omerico, con la stessa pazienza, lo stesso coraggio, la stessa speranza in un disegno.
I suoi occhi, il suo sguardo sono puri come la neve, ne hanno la stessa limpidezza, lo stesso candore.
È un uomo di montagna abituato a camminare, e camminando ha attraversato in lungo e in largo questo martoriato continente.
Come un padre mitico ha sempre avuto al primo posto della sua scala etica il senso di responsabilità. Non ha mai abbandonato nessuno lungo il suo cammino, che fossero soldati amici o nemici, o persone perdute tra le montagne. Se li è caricati sulle spalle e li ha riportati a casa.
Ciò che non ha potuto portare indietro ha deciso di raccontarlo, per non dimenticare.
Carlo Mazzacurati

Ritratti. Un film di Mazzacurati e Paolini (estratto video – link)
In questi giorni è nevicato molto e sul mio tetto, sopra quella di dicembre, c’è piú di un metro di neve fresca. Sono isolato dal paese. Da un libro traggo un foglio dove Andrea Zanzotto mi ha trascritto a mano una sua poesia:
Gelo
Stagione del candore –
per le più variate nevi
mille stelle sorelle
verso me prendono il cammino.

Nel 2006, esce Stagioni, la sua ultima opera. Lo convince a scriverla Roberto Cerati: il testo segue le quattro stagioni componendo per ciascuna di esse storie diverse, tenute insieme dal filo della memoria. I testi più legati alla natura erano usciti pochi anni prima nel libro L’altipiano delle meraviglie, realizzato con il fotografo naturalista Roberto Costa. Lo scrittore li amalgama insieme a racconti autobiografici, creando un’unica narrazione che racchiude tutti i temi a lui più cari, come un lungo e affettuoso addio.
Dialogando con giornalisti e lettori Rigoni spiegava che non aveva timore della morte, temeva invece la malattia e il dolore. Conservava con cura le ultime disposizioni del bisnonno Giulio Vescovi: I miei funerali siano semplici e modesti come quelli di un povero, non voglio che siano fatti sperperi né dimostrazioni di sorta.
E quando venne il suo momento le fece proprie. Nell’epigrafe funebre compare proprio il finale di Stagioni.
Così una dolce malinconia ti prende, la melanconia dell’autunno, e sotto un larice, all’asciutto, cerchi anche tu un luogo dove accucciarti per meditare sulle stagioni della tua vita e sull’esistenza che corre via con i ricordi che diventano preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto e per i doni che la natura ti elargisce.
Una mattina di dicembre vedrai il cielo uniformemente grigio, le montagne dentro le nuvole, i boschi più scuri e, da una catasta di legna, schizzar via lo scricciolo. Il suo campanellino d’argento ti dirà prossima la prima neve.
Giuseppe Mendicino

Rigoni Stern si definiva narratore e non romanziere, facendo sua la definizione di Walter Benjamin: è narratore colui che racconta ciò che ha vissuto o ha conosciuto attraverso esperienze altrui, divenendo portavoce di una memoria collettiva. Benjamin distingueva tra due tipi di narratore, colui che ha viaggiato e incanta con i suoi ricordi – un grande esempio le avventure marinare di Joseph Conrad – e chi, radicato nella propria terra, ne ha una conoscenza profonda, da trasmettere e tramandare. Rigoni riunisce entrambe queste caratteristiche: a venticinque anni ha già visto tanti luoghi diversi, ha camminato attraverso mezza Europa e superato esperienze durissime; dopo la guerra, la scelta di vivere stabilmente in altipiano lo tramuta in una sorta di genius loci, con una profonda sapienza della storia e della natura di quel mondo.
Giuseppe Mendicino