Roth

Quella grande guerra venne giustamente chiamata guerra mondiale, e non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo.
Joseph Roth

Che personaggio esemplare fu Joseph Roth  fin dal disastro europeo chiamato Prima Guerra Mondiale, di cui fu uno dei tanti reduci che fecero fatica a riadattarsi alla presunta normalità dell’entre deux guerres.
Visse quegli anni tra Berlino e Parigi, dove morì poco prima dell’imminente scoppio di una seconda guerra ben più mondiale e micidiale della prima.
Era il 1939, e aveva solo 45 anni. Era nato a Brody, in Galizia, agli estremi confini di quell’impero absburgico, di cui ebbe una contraddittoria nostalgia, che pervade tutti i suoi romanzi, tutti i suoi scritti.
Era ebreo, ma figlio di un impero che non faceva distinzione tra i tanti popoli che lo componevano e anzi se ne faceva un vanto e una forza.
Lavorò a Berlino da giornalista fino all’avvento di Hitler, ma viaggiando molto, per esempio nella Russia bolscevica e nell’Italia fascista e altrove, vedendo i primi effetti delle rivoluzioni post-belliche.
Roth era, insomma, più scrittore che giornalista.
Goffredo Fofi

Joseph Roth

Io so soltanto che non è stata, come si dice, la ‘inquietudine’ a spingermi, ma al contrario – una assoluta quiete. Non ho nulla da perdere.
Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo.
Joseph Roth

Il mercante di coralli

Fra i grandi scrittori del nostro secolo, Joseph Roth è quello che più pervicacemente ha saputo tener fede alla figura del narratore. Raccontare storie disparate, intesserle, farle risuonare l’una con l’altra, fare dei propri racconti una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini: questo è il sogno che Roth perseguì in tutta la sua vita di scrittore.
Molte sono le vie che Roth tenta in questi racconti, e più di una volta si può dire che esse conducano alla terra della perfezione, come nel caso almeno del Capostazione Fallmerayer, della Leggenda del santo bevitore e del Leviatano.
Ma, percorrendo di seguito queste pagine, più ancora della compiutezza del singolo testo colpisce la comune linfa che circola in ogni pagina, quasi la continuità fra tutte le storie.
Come i coralli per il «mercante di coralli» Nissen Piczenik, protagonista del Leviatano e immagine testamentaria di Roth stesso, qui le singole storie sono di per sé oggetto di un amore inesauribile perché tutte ugualmente provengono, tutte sono state nutrite dalle acque profonde, là dove gli oceani comunicano con le paludi dell’Europa centrale.

Leviatano

E se dobbiamo credere al resoconto di un tale che in quell’occasione, per miracolo – come si usa dire – sfuggì alla morte, dobbiamo riferire che Nissen Piczenik, molto prima che le scialuppe di salvataggio fossero colme, si buttò da bordo in acqua, per raggiungere i suoi coralli, i suoi coralli veri.
Per quanto mi riguarda, sono propenso a crederci. Perché ho conosciuto Nissen Piczenik e garantisco che la sua famiglia erano i coralli e che il fondo dell’oceano era la sua unica patria.
Il Leviatano

Nissen Piczenik ha nostalgia del Leviatano e del fondo primigenio del mare, vuol raggiungere la patria dei coralli misteriosi che crescono nell’abisso custoditi dal mitico mostro.
L’Odissea di Nissen Piczenik è dunque un’odissea verso il naufragio, un naufragio che investe soprattutto l’ordine borghese ed i suoi valori.
La casa borghese di Nissen, centro della sua vita familiare e commerciale, si trasforma in un crepuscolo misterioso che rammenta i fondali marini.
Claudio Magris

La leggenda

Gli sembrò di aver perduto il suo amico nella pioggia, proprio come, per caso, lo aveva incontrato, e, poiché era ormai senza soldi, a parte trentacinque franchi, ed era convinto che il destino lo viziasse, sicuro che altri miracoli gli sarebbero ancora capitati, decise, come fanno tutti i poveri e i bevitori impenitenti, di affidarsi di nuovo a Dio, all’unico in cui credeva. Andò quindi alla Senna e scese la solita scala che conduceva alla residenza dei vagabondi.
La leggenda del santo bevitore

Nei suoi ultimi anni, di cui è una sorta di indiretto racconto La leggenda del santo bevitore da cui Ermanno Olmi, trasse un film che non è così bello come il racconto, Roth si trascinò da un’osteria a un bar in una Parigi cosmopolita e indifferente alle pene di tanti esuli, di tanti senza-più-patria.
Il più senza-patria di tutti fu forse proprio il nostro Roth, o almeno quello che meglio ha saputo raccontarli, colui che ne cercava disperatamente e inutilmente una comunità rassicurante, e che oscillava tra ebraismo e cattolicesimo come aveva oscillato tra gli ideali monarchici e, in gioventù, le speranze socialiste.
La sua lenta maniera di suicidarsi fu una reazione all’insensatezza della storia (e perfino della geografia), la reazione a un’epoca non meno disperata e dal nero futuro di come è la nostra, che trova bensì nella letteratura valvole di sfogo e mercificazione delle esperienze molto più facilmente che un confronto – purtroppo sempre angosciante – col male della Storia.
Goffredo Fofi

Staccato da ogni legame con i padri e privo di figli, Roth è tagliato fuori dalla continuità della tradizione e della trasmissione di valori; testimone incalzato ma non affascinato dalla barbarie, egli sembra incarnare ai suoi stessi occhi la disintegrazione radicale dell’Ostjude transfuga ed assimilato.
Roth appare a se stesso – ed egli medesimo si ritrae – come la quintessenza, dell’Ostjude sradicato, dell’uomo totalmente disancorato dalle proprie Madri.
Lo scrittore scrive il proprio congedo ed il proprio epitaffio, recita su se stesso il Kaddisch che il figlio deve pregare per la memoria del padre – un Kaddisch dunque laicizzato e rovesciato, quasi blasfemo nei confronti della pietas.
Roth diviene il figlio di se stesso e si porge un estremo, sarcastico saluto.
La religiosità dei suoi ultimi racconti è a doppio taglio, rivelatrice e insieme autodistruttiva.
Die Legende vom heiligen Trinker, una stupenda novella enigmatica nella sua ambigua semplicità, è la favola di una periodica e continua inadempienza, di una soffice e deserta discesa nel nulla.
Claudio Magris

Lontano da dove

In Lontano da dove Roth, pur oggetto di indagine e di valutazione, è sostanzialmente un pretesto, un filo conduttore scelto per la sua tipicità ed esemplarità che consentono di collegare ed ordinare, grazie ad esso, una tematica vastissima e pressoché illimitata, che altrimenti rischierebbe di straripare dai limiti del discorso critico e del libro stesso.
Lontano da dove vuol essere un libro sull’esilio, sull’esilio ebraico assunto a metafora di una condizione storica ed esistenziale che vede l’individuo esiliato dalla pienezza e dalla totalità della vita vera.
Claudio Magris

J. Roth
Roth ha tutti i titoli per essere considerato uno dei massimi autori del ’900 per la sua straordinaria percezione della crisi del mondo moderno – che è ancora il nostro mondo – per le sue possenti metafore e per la sua utopia, regressiva e struggentemente nostalgica.
Ciò che Roth comunica è l’assoluta sincerità del momento.
È come se da quel tavolino da caffè, dove amava rifugiarsi per scrivere, si sprigionasse disperata la voce autentica della letteratura nella modernità.
Marino Freschi