Dacia Maraini

Ero una forsennata lettrice e divoravo tutto quello che mi capitava fra le mani.
Negli scaffali di casa trovavo Lucrezio, Tacito, Shakespeare, Dickens, Conrad, Faulkner, Steinbeck, Dreiser, Melville.
Cosi io passavo da Topolino che allora si vendeva in piccole dispense tascabili a Henry James, senza sentirmi spaesata.

 

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 La Sicilia nella prima metà del Settecento, in un tempo scandito da impiccagioni, autodafé, matrimoni d’interesse e monacazioni senza vocazione.

“Sposare, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare, e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie che a loro volta si sposino e figlino” … è questo il motto della discendenza Ucrìa, che in questo modo è riuscita ad imparentarsi per via femminile con le più grandi famiglie palermitane.

La lunga vita di Marianna Ucrìa è un libro che nasce da molta notte; è come se molte notti si fossero accavallate nascondendo qualcosa che, evidentemente, faceva parte della mia memoria, e che faticava a venir fuori.

La scrittura è uno dei modi per sciogliere i nodi del passato. Attraverso la scrittura si entra in una zona ingarbugliata ed enigmatica della vita, da cui poi piano piano si esce, ma ci vogliono degli anni e certe volte non se ne esce affatto.

Credo di dividere con Marianna un grande amore per la lettura ed una odissiaca ansia di ricerca della conoscenza; inoltre ho in comune con lei una certa esperienza della afasia. Anch’io da bambina, al ritorno dal Giappone, scioccata dagli orrori della guerra e dalle privazioni dei campi di concentramento, ho sofferto un lungo periodo di rifiuto di contatto verbale, quasi un rifiuto di ritorno alla normalità. Vedendo, molto tempo dopo, il quadro in cui Marianna era ritratta con un foglietto tra le mani, proprio ad indicare la sua incapacità di comunicazione verbale, mi sono subito sentita vicino a lei. Sapevo quello che provava.

Marianna Ucrìa, pur essendo aristocratica parte da una condizione di difficoltà, di emarginazione, di impedimento, di minorazione che sembra le escluda ogni partecipazione alla vita del suo ambiente e della sua epoca, e invece lei che ha molto desiderio di capire, di apprendere attraverso i libri, attraverso la scrittura, recupera piano piano, costruisce uno spazio di libertà.

Marianna è stata lei che mi ha cercata. Non mi lasciava in pace. Era insistente, assillante, fedele al suo destino personale. Alla fine ho ceduto e le ho prestato ascolto. 

Dacia Maraini

bagheria

Quando ero piccola, quella porta era sempre aperta e sulla soglia stava seduta, come una parca intenta a cucire il filo della vita, la buona e generosa Innocenza, il corpo grasso e sfatto, un sorriso sempre pronto sulle labbra, i denti gialli e rotti, un paio di occhiali a stanghetta tenuti legati dietro alle orecchie con uno spago. Mi pare ancora di sentire l’odore del suo grembiule che sapeva di pesce fritto, di basilico fresco, di caffè, di sapone, di pomodoro conservato. Cuciva tutto il giorno, la grassa Innocenza e teneva d’occhio il cancello. Quando qualcuno arrivava, chiedeva cosa volesse; ma lo faceva senza assumere una vera aria inquisitoria, come fanno molti portieri [ … ] Conosceva tutti i pettegolezzi del paese, ma non era maligna, anzi cercava di rimediare a tutte le gelosie, a tutte le invidie, mettendo una mezza parola di qua, una allusione benevola di là. Sempre disposta a vedere il bene nascosto fra i mali come un fico maturo e succoso in mezzo alle pale spinose e impolverate della convivenza quotidiana. Era lei che mi raccontava di Fila che si era fatta “mettere gravida” a quindici anni dal cognato. E di come i fratelli di lei avessero deciso, a freddo, di ucciderlo a meno che lui non se la fosse presa e subito, “rimediando al fatto”.

 

Intervista

Leggere e scrivere con il corpo (video)

 

Cinema

In quanto al cinema ricordo ancora la prima volta che a Bagheria riapparve il proiettore, dopo l’incendio del cinema Moderno.
La macchina fu piazzata davanti alla chiesa.
E centinaia di persone assistettero al grande prodigio di una serie di ectoplasmi bianchicci che si muovevano sulla parete della chiesa in un vociferare di sorpresa.

Poi le cose presero una forma più precisa; al posto della chiesa fu costruita una arena, furono sparpagliate delle seggiole dal fondo di agave intrecciata, fu sollevato un lenzuolo a mo’ di schermo e su quello schermo cominciarono a correre, ben riconoscibili, i cavalli dei cow-boy americani che inseguivano gli indiani con le piume sulla testa.

Dacia Maraini

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Penso che Marianna Ucrìa diretto da Faenza sia un bel film, ne sono contenta. Credo sinceramente che uno scrittore non si debba aspettare una specie di illustrazione del proprio romanzo, perché il cinema è un altro linguaggio. I ritmi e i tempi poi sono completamente diversi.

Faenza ha voluto con sé un grande costumista, Donati, che ha saputo creare un Settecento di invenzione, non tanto realistico quanto visionario e credo che abbia servito bene il film.

Non sono intervenuta nel lavoro di sceneggiatura, salvo per i dialoghi che Faenza mi ha chiesto di rivedere. I dialoghi per me sono molto importanti. Credo che la sceneggiatura per uno scrittore sia mortificante perché è funzionale all’organizzazione del film, poi si butta via. Qualche volta si conserva come testimonianza del lavoro fatto, ma non ha una validità di scrittura.

È sempre stato mortificante per me lavorare alle sceneggiature. Anche quando ho lavorato con Pasolini e con Ferreri, per quanto abbia imparato molto sul cinema da loro, per quanto sia stata bene in loro compagnia, non vedevo l’ora che finisse il lavoro per dedicarmi interamente alla scrittura.

Dacia Maraini

 

Roberto Faenza e Dacia Mariani (video)