Il giorno in cui si arresterà il vostro cammino, allora partirete davvero.
E farete precipitare il sole.
Mario Vargas Llosa, Il narratore ambulante
Nel mondo della Migrazione, tuttavia, non esiste nulla di più importante del denaro. Tu sei povero e allora non viaggerai, resterai confinato nella carità sudicia dei campi profughi. O sarai costretto a scegliere il sentiero nel deserto più pericoloso, il passeur meno affidabile che ti lascerà dietro una duna senza cibo e senza acqua. O la barca più piccola e marcia per attraversare il mare. Il gommone più liso che trasformerà in azzardo anche il piccolo cabotaggio da isola a isola nell’Egeo.
Il mondo è rotolato in modo invisibile, silenzioso, inavvertito, in tempi nuovi, come se fossero mutati l’atmosfera del pianeta, il suo ossigeno, il ritmo di combustione e tutte le molle degli orologi. Tutto l’Occidente, dai governanti ai sudditi, pensa ingenuamente di continuare a respirare l’aria di prima e di vivere sulla medesima terra di prima e solo pochi si sono accorti che lo zodiaco è cambiato.
Domenico Quirico – Esodo
Nyang è un ragazzo che conta i migranti morti, tiene la contabilità e dà un nome a quelli che non sono tornati dal deserto e dai naufragi.
L’ottanta per cento dei migranti viene da questa regione, ben centoventiquattro delle vittime della tragedia di giugno erano di qui.
Pile di fogli di scrittura fitta, la sua, meticolosa: nove del villaggio di Kabaya, sette del villaggio di Saorané, quattordici del villaggio di Dindinaye.
E ancora, ancora.
È gentile Nyang, ma nei suoi occhi c’è una languida ostilità; non appartiene al nostro stesso mondo quel viso, noi per lui siamo al riparo dal dolore, dalla miseria, dalla tragedia:
«La migrazione è una religione per noi, siamo tutti migranti, la nostra vita è la migrazione. Perché studiamo francese a scuola? Per migrare. Perché lavoriamo come bestie? Per avere i soldi e migrare. Tutto il poco che abbiamo in Mali, in questo Paese disperato, è pagato dai migranti».
Domenico Quirico – Esodo
Un mondo occidentale distratto, inerte, per anni ha guardato senza vedere i morti e le macerie siriane – spiega la Giuria del Premio – per questa scrittura eretica di fronte alla carneficina siriana e alla indifferenza della opinione pubblica, la Giuria affida a “Succede ad Aleppo” il Premio Terzani 2018.
Oggi scrivere – di Aleppo, di Siria, di guerre, di migrazione di profughi – è un atto obbligatorio contro il silenzio opaco, atroce, inumano. È la lezione di Tiziano Terzani.
Aleppo è tra il cielo e l’inferno.
Aleppo é insieme Guernica e Stalingrado, Sarajevo e Grozny …
Come si uccide una città intera? A poco a poco, smontandola. Tagliando le vene delle strade ad una ad una, schiacciando sotto le macerie i luoghi di incontro, le piazze le moschee i caffè, fino ad inaridirli. A poco a poco, uno due tre quattro anni, il cuore della città non funziona più, non pompa più sangue o si rifugia in una vita vegetativa sotterranea che non è vita.
Che cambia la natura degli uomini.
Quando ha iniziato a morire Aleppo? Non lo so.
Forse ha cominciato a morire, e non ce ne siamo accorti, nel momento in cui sembrava ancora viva e in tumulto.
E invece la guerra era entrata in lei, lentamente, subdolamente: già ne rodeva le viscere e i centri nervosi. Scriveva in silenzio il capitolo della lentissima agonia, quando non sarebbe più stato possibile tornare indietro, predisporre le cure.
Nessuno di noi, testimoni, lo sapeva. Nessuno degli abitanti di Aleppo …
Domenico Quirico – Succede ad Aleppo
Amami / lontano dalla terra della repressione / lontano dalla nostra città sazia di morte
I numeri forse non sono aggiornati, ma bastano a indicare la dimensione del dramma che si sta consumando ad Aleppo. Dall’inizio del conflitto siriano sono stati uccisi 23.863 bambini, il numero dei profughi registrati è di 4.807.700, hanno chiesto asilo in Europa 1.177.914 persone, 483.897 vivono nei campi profughi interni alla Siria. È dalla Seconda Guerra Mondiale che non si aveva una crisi umanitaria di tali dimensioni. Ad Aleppo ovunque è distruzione, terrore, fuga. Si è costretti a lasciare le proprie case, la vita, gli affetti che quelle mura racchiudono. E sui muri si scrivono dolorosi addii, messaggi, dichiarazioni d’amore. Ha fatto il giro del mondo la foto di una di queste scritte che citava i versi del poeta siriano Nizar Qabbani: “Qabbani (1923-1998) è ritenuto uno dei maggiori poeti arabi contemporanei. La sua poesia così luminosa, viscerale, immediata gode di grande popolarità. Quei suoi versi vergati da mano anonima sui resti di un muro si fanno quanto mai toccanti e disperati.
Luigi Oliveto, 2017
Amami
e perditi nelle linee della mia mano.
Amami per una settimana, per qualche giorno
o solo per qualche ora…
non mi interessa l’eternità.
Io sono come ottobre…
il mese del vento, della pioggia, del freddo.
Amami come un terremoto,
come una morte inattesa,
Sono un uomo senza destino,
sii tu, allora, il mio destino,
come un’incisione sulla pietra…
Amami …
lontano dalla terra della repressione,
lontano dalla nostra città sazia di morte,
Amami … lontano dalla nostra città,
perché l’amore non la visita da quando esiste,
e Dio lì non è più tornato.
Amami …
Nizar Qabbani, Poesia Selvaggia
La domanda, allora.
Perché scrivere un libro su un delitto di cui si sa il nome dell’assassino? A che scopo?
Bisogna scrivere per difendere le vittime contro le forze che le schiacciano.
Sempre. Non vi basta?
Gli altri possono farlo: indagare su quanto è accaduto, incrociare le testimonianze, cercare indizi, intervistare i testimoni. In modo neutro. Io no.
Perché questa storia non può essere raccontata, da me, se non specchiandomi dentro, usando quello che io so, la mia esperienza di ostaggio: che non posso condividere con altri se non con lui, l’uomo che inseguo a parole, con le parole.
Siamo legati, io e lui, indissolubilmente. Nel dolore.
Che cosa posso raccontare io che non ho mai incontrato di persona Giovanni Lo Porto?
Per me vive dal momento in cui il suo sequestro mi è stato consegnato dalle parole della madre, dal momento in cui siamo entrati insieme nel mondo dei rapiti, dei sequestrati, il mondo delle porte chiuse e delle ombre incappucciate. Dove l’unico linguaggio è la violenza.
Ci unisce qualcosa che è più di una stretta di mano o un sorriso di reciproca stima.
Ci unisce il tempo, incomunicabile, del prigioniero. E sapere che oltre quella soglia no, non c’è più niente da dire. Solo stringere i denti con violenza.
Vi sembra poco?
Domenico Quirico – Morte di un ragazzo italiano
Diritto e cultura: la vera delimitazione tra centro e periferie (Video – Link)
Les Sauteurs (Trailer – Link)
Les Sauteurs (ZALABB ITA – Link)
Sul Monte Gurugù intorno a Melilla, enclave spagnola in Marocco, vivono migliaia di migranti africani in attesa di riuscire a scavalcare la barriera di filo spinato e telecamere per raggiungere l’Europa. Ad uno di loro, Abou originario del Mali, gli autori del documentario affidano una telecamera per raccontare la vita di questa comunità.
Il documentario Les Sauteurs, di Moritz Siebert e Estephan Wagner in coregia con Abou Bakar Sidibé, presentato in anteprima mondiale al Festival di Berlino 2016, ha ottenuto l’Ecumenical Jury Award e, selezionato in oltre 50 festival di tutto il mondo, ha vinto 15 premi tra cui l’Amnesty International Award.
Il passaporto è la parte più nobile di un uomo (Dialoghi di profughi – Bertolt Brecht)
Settant’anni dopo, con notizie giornaliere sulla situazione dei migranti alle frontiere d’Europa, questa frase rimane di una disturbante attualità.
Per quelli di noi nati dal lato “giusto” della frontiera, i muri invalicabili restano un’immagine remota. Ma per quelli dall’altra parte, come Abou, che hanno un passaporto maliano, le opzioni sono molto limitate.
Quando le notizie sui massicci tentativi di superare le recinzioni di Melilla iniziarono a fiorire, nel 2014, fummo molto colpiti dalla determinazione della maggior parte degli uomini sub-sahariani sul Monte Gourougou.
Certo non mancano storie sulle tragedie che accadono alle frontiere d’Europa.
Ma la nostra impressione è che le immagini siano comunque poche.
Una voce sembra sempre mancare: la voce delle persone coinvolte.
Con l’obiettivo di sfidare l’immagine predominante del migrante, ci siamo per prima cosa confrontati con il nostro approccio da filmmakers.
Abbiamo deciso di assumere completamente il punto di vista del nostro protagonista, e lasciare a lui la decisione su quali aspetti filmare.
Quindi abbiamo consegnato la videocamera ad Abou.
L’approccio di Abou inizialmente era differente dal nostro.
Il suo scopo principale era raccontare al mondo della enorme ingiustizia che lui e i suoi amici stavano subendo a Melilla.
Ma gradualmente filmare in sé si è trasformato per lui in una forma di espressione.
Abou è passato dall’essere protagonista a co-regista.
Moritz Siebert – Note di regia
Welcome (Trailer – Link)
Welcome (Trailer ITA – Link)
Esiste ancora un cinema capace di denunciare, senza ricorrere al linguaggio del docu-film o del documentario?
Welcome di Philippe Loiret ha incontrato nel suo paese diverse polemiche da parte del governo. Il film racconta la storia del giovane Bilar che dal profondo Kurdistan giunge in Europa, da clandestino, a piedi, con l’obiettivo di arrivare a Londra e ricongiungersi alla ragazza della quale è innamorato.
Qui l’Europa è Calais, la città attorno a cui ruota l’azione del film, più simile a un girone dantesco per la disumanità nei confronti degli immigrati, che a un paese della Comunità Europea. Calais testimonia l’incubo quotidiano di una dura terra di frontiera.
Duro e commovente, senza retorica, il regista denuncia una condizione oggettiva, la brutalità di un luogo di frontiera restio alla contaminazione, violento e diffidente perché terrorizzato dalla presenza dell’”altro”.
Dopo l’uscita del film diverse delegazioni di organizzazioni non governative si sono recate in Francia per verificare direttamente la situazione e le condizioni dei minori.
La preparazione del film nelle parole del regista Philippe Lioret: “Per parecchi giorni, durante un inverno ghiacciato, abbiamo seguito i volontari di queste organizzazioni, venendo a contatto con la vita infernale dei rifugiati: la ‘giungla’ dove trovano riparo, il racket delle estorsioni dei contrabbandieri, le infinite persecuzioni da parte della polizia, i centri di detenzione, i continui controlli dei camion dove stanno ammucchiati per riuscire a imbarcarsi sul traghetto e dove rischiano la vita per sfuggire alle ispezioni … Quello che ci ha sorpreso di più è stata l’età dei rifugiati: il più vecchio non aveva 25 anni … Quel che accade oggi a Calais mi ricorda ciò che è accaduto in Francia durante l’occupazione tedesca: aiutare un clandestino è come aver nascosto un ebreo nel ’43, si rischia il carcere”.
Le Havre (Trailer – Link)
Miracolo a Le Havre (Trailer ITA – Link)
Calais chiama Le Havre. A Le Havre vive Marcel Marx, di professione lustrascarpe, mestiere che esplica mirabilmente l’idea che Aki Kaurismäki ha della società e del cinema. Benché la sua Le Havre sia riconducibile al cinema popolare francese degli anni Trenta (da Carnè a Clair, ma per la mescolanza di tragico e comico sarebbero pertinenti rimandi anche a Sobborghi del sovietico Boris Barnet), sembra essere ambientata nell’immediato dopoguerra.
Lo stile di Aki Kaurismäki mescola l’essenzialità di Bresson alla leggera ma profonda commozione chapliniana, divertente, discreto, colto di riferimenti, eppur mai pedante, unico al mondo, certamente tra i più inconfondibili del cinema contemporaneo.
Nostalgia? Lentezza? Rifiuto della contemporaneità? Non accade spesso che il cinema europeo affronti il tema della sempre più grave crisi economica, politica e soprattutto morale che ha portato alla questione irrisolta dei profughi: dice il regista che, non avendo soluzioni da proporre, dona all’attuale problema il suo stile, il suo modo di raccontare.
L’umanità dei suoi personaggi, in contrapposizione con la recitazione antinaturalistica di quasi tutto il cast, raggiunge con questo film un vertice nell’itinerario dell’autore finlandese e, in generale, nel cinema contemporaneo.
“Miracolo a Le Havre” è dunque immerso nel presente per tematiche sociali, ma al contempo raffigurato con un’anima avulsa da ogni tentazione post-moderna. In questo modo risulta un film sull’oggi non solo per l’oggi, ma per tutte le stagioni.
Sicuramente film necessario come i film di Charlie Chaplin degli anni venti o trenta.
E come in quei capolavori, sotto la scorza comica c’è sempre un discorso di lotta di classe.
Aki Kaurismäki continua a schierarsi dalla parte degli umiliati scriverebbe Maggiani.
Senza dimenticare i problemi sociali e privati lo spudorato ottimismo che esprime Aki Kaurismäki è da considerarsi come un gesto di ribellione: una fiaba miracolosa nel fondere etica ed estetica, antidoto contro le brutture del mondo e i catastrofismi cinematografici; è un capolavoro che riconcilia col cinema e con la vita, toccato dalla medesima grazia della natura che scolpisce la bellezza di un ciliegio in fiore.