Per molto tempo ho considerato certi scrittori come amici miei.
Nietzsche è un compagno dei giorni buoni e di quelli cattivi. In lui trovo quello di cui ho bisogno: la poesia, il pensiero ribelle, l’assenza di sistema, e una voce che sento in fondo a me stesso. Potrei dire la stessa cosa di Rimbaud, o di Juan Rulfo.
Una biblioteca è una camera piena di amici.
Sono amici che mi stanno intorno e che mi offrono ospitalità. I libri – forse non tutti i libri – quando sono sistemati negli scaffali, sembra che vi osservino, o che vi chiamino. Aspettano.
Penso a Ulisse di James Joyce. L’ho letto durante il periodo che ho passato in un campo militare di punizione. Ha aperto dentro di me la via della scrittura.
Mi ha autorizzato a scrivere. Chi vi fa un simile regalo non merita la vostra amicizia?
Nella mia scrittura il sacro è atteso, ma non è vissuto. Credo che il sacro sia intangibile.
Io sono un scrittore che dice cose sgradevoli sulla società, sull’umanità, non sono uno scrittore gentile perché penso che la letteratura deve essere feroce come Caravaggio.
E’ stato molto vicino alla realtà, la più terribile.
Ho scelto un uomo della vecchia generazione arrivato in Francia per lavorare.
Veniva da un piccolo villaggio dove non aveva nulla, dove non aveva imparato neppure a leggere e a scrivere. Per Mohamed è difficile entrare nel dialogo della civiltà, perché è un uomo modesto e non è in grado di accettare una cultura così diversa dalla sua, è per questo che soffre.
L’identità esiste solo nella differenza perché nessuno è identico all’altro. E’ un dato di fatto che la vita è fatta di differenze.
Il sacro è l’ultima tappa del viaggio, alla ricerca del senso della vita ed è per questo che il misticismo ed i poeti mistici mi appassionano molto.
Non so se credo in Dio e non so se sono un infedele, ma credo molto alla spiritualità e al sacro che è una cosa talmente rara che quando la incontro la rispetto profondamente.
Lungo il percorso
É curioso che tu domandi a un marocchino come me, che si situa geograficamente all’Occidente estremo di parlare dell’Oriente. Tanto più se consideri che quest’espressione, Oriente, è assai ambigua e usata molto spesso a sproposito.
Diciamo dunque subito che il Maghreb è l’Occidente. E aggiungiamo che di Oriente ce n’è più di uno: bisogna per esempio distinguere l’Oriente estremo, cioè la grande Asia della Cina, dell’India, del Sudest asiatico, dall’Oriente delle Mille e una notte che si situa invece a Baghdad, in Egitto, in Turchia o nell’antica Persia.
Purtroppo oggi quando si dice Oriente si è però abituati a contrapporlo all’Occidente. Ma si tratta di contrapposizioni artificiali: non penso che esista un Oriente preciso, compatto, solido a cui contrapporre un Occidente altrettanto solido e compatto. Io parto dal principio che una civiltà, o una cultura, sia infatti qualcosa di fluido. Qualcosa che attraversa le frontiere.
Siamo tutti depositari di diverse civiltà, non di una sola come siamo custodi di diverse culture e non di una soltanto.
Moha il folle Moha il saggio, il protagonista vive in un linguaggio sempre alla soglia del canto, eppure sferzante come un pamphlet, nella parola che mantiene il ritmo incalzante di un respiro teso allo spasimo; colloquia con se stesso, ricorda, profetizza, si commuove, s’indigna.
Il potere disarmato di Moha si rivela come energia incalcolabile: è memoria ed ostinazione, ma anche maieutica e terapia; è talento e complicità, è chiamata in cui non c’è ombra di prevaricazione o tracotanza … perché l’io continui ad aprirsi ad un possibile e indubitabile cosmo, e possa abitare il suo sogno
non nella fuga, non nella mistificazione, non nello smarrimento.
Andrea Zanzotto
Azel ha stabilito che il mare che egli vede di fronte a sé ha un centro e che questo centro è un cerchio verde, un cimitero dove la corrente si impadronisce dei cadaveri per poi trascinarli sul fondo e deporli su un banco di alghe. E sa che lì, proprio in quel cerchio, esiste una frontiera mobile, una sorta di linea di demarcazione fra due acque, quelle calme e piatte del Mediterraneo e quelle furenti e impetuose dell’Atlantico.
Partire
Un romanzo è un’idea, un’idea che può trottare nello spirito anche per moltissimo tempo.
Partir per esempio ha avuto una gestazione lunghissima: ho cominciato a pensarci nell’ottobre del 1991, quando avevo da poco pubblicato su Le Monde un articolo su i primi africani neri che arrivavano a Tangeri per cercare di attraversare lo Stretto.
Nessuno a quell’epoca capiva perché si trovava là, e, soprattutto, in pochissimi lo sapevano.
Così decisi di raccontare soprattutto dello stupore della gente.
E da quelle prime sensazioni nacque Partire.
Una volta convinto dell’idea, lavorai quindi a diverse versioni, come faccio sempre. La prima non è mai quella buona. Scrivere un romanzo è soprattutto riscrittura.
Oggi un corpo umano prenderà la strada del ritorno.
Viaggia in una scatola metallica. I suoi sogni
di tappezzeria sono portati via dai bambini.
C’è ancora un avanzo di vita da
raccogliere, da impacchettare in un foglio di alluminio, da legare
con lo spago e rispedire al paese.
Non dimenticate l’etichetta e il profumo.
Ci sono ferite che si nutrono del tempo, diventano il tessuto della memoria.
L’immigrazione, è stata e rimane questa violenza: una rottura nella storia del Paese e dell’individuo.
Alcuni resistono, altri si conformano all’epoca, altri, infine, cadono nel vuoto lasciato dal passaggio della lacerazione.
Si levano voci, forse tradotte dal silenzio. Di queste voci di questi silenzi, di questi volti e di queste mani, volevo parlare.
La mia esperienza clinica in un consultorio psichiatrico nutriva il mio immaginario letterario. Preparavo una tesi in psicologia applicata, lavorando in quel consultorio dove ricevevo pazienti maghrebini. Il mio compito consisteva nell’ascoltarli e parlargli nella loro lingua.
Mi ricordo il periodo in cui scrivevo questo libro. Avevo circa trent’anni, vivevo a Parigi, lavoravo per diversi giornali, e davo lezioni. Arrivavo a malapena a mettere insieme il pranzo con la cena. Non avevo nessuna difficoltà ad inventare il personaggio di questo romanzo, né ad identificarmi con la solitudine e con i suoi problemi. In quell’epoca vivevo una sorta di deserto affettivo. Ero solo e piuttosto triste Allora scrivevo. Era il mio modo di non essere più solo.
Cosa può fare la letteratura per rompere i pregiudizi, per far arretrare le paure, per allontanare l’ignoranza
Leggere, far leggere, scoprire, far scoprire, far vedere, incitare a guardare verso le altre culture, rendere accessibili le differenze, cioè renderle familiari, questo è il compito di chi racconta storie.
Il mio numero di matricola è lo 10.366 …
La prima arma è l’umiliazione, questa violenza che consiste nel declassarci, nel metterci sull’orlo del baratro minacciandoci di darci un calcio nella pancia. Mi aggrappo ai ricordi delle mie letture; non so se recito fedelmente ciò che ho letto o se invento delle frasi. Ho in mente Dostoevskij, Čechov, Kafka, Victor Hugo …
Nella mia testa sfilano scene dai film di Charlie Chaplin. Perché il bravo Charlot viene a trovarmi in questa terra ingrata e macchiata da militari abietti? Ne rido di nascosto: sono perfino contento di avere visioni del genere in questi momenti difficili. Quell’omino che riesce a ridicolizzare i violenti che lo perseguitano mi ossessiona.
Quel genio ha vendicato milioni di umiliati nel mondo.
Ecco, questa era la sua missione, il suo disegno. Grazie, Charlot.
Dalla notte del 10 luglio 1971, non ho più età.
Non sono né invecchiato né ringiovanito. Ho perso la mia età.
Non è più leggibile sul mio volto.
In realtà, non sono più qui a darle un volto.
Mi sono fermato dalla parte del nulla, dove il tempo è abolito, lasciato in balia del vento.
Io non ho passato, quindi non ho memoria. Sono nato e morto il 10 luglio 1971.
Nella medina di Fez c’è una strada così stretta che viene chiamata “la via di uno soltanto”.
È la via d’ingresso al labirinto, lungo e buio.
I muri delle case danno l’impressione di toccarsi, in alto.
Si può passare da un tetto all’altro senza sforzo.
Quella strada è ben radicata nella mia memoria, come un ricordo vivo.
Osservando le statue di Giacometti, ho subito saputo che sono state fatte così, sottili e allungate, per percorrere quella via e persino per potersi incrociare senza problemi.
Mi sembra addirittura di avercele incontrate, da bambino.
Il cane di bronzo, così lungo, così scarno, radeva i muri, come si dice, con la sua orizzontalità rigida e interminabile, mentre un uomo filiforme camminava e la sua testa oltrepassava i tetti piani, illuminati da una luce forte.
Tahar Ben Jelloun – La mia Matera (video – link)
Matera è una sinfonia. Bisogna tendere l’orecchio per sentirla.
Un’armonia che deriva più dal caso che dalla mano dell’uomo.
Caso o forza della natura, potenza della roccia.
Scolpita nella pietra, nella dura roccia, nel sogno di uomini e donne che si nascondevano lì per amarsi.
Tahar Ben Jelloun
Tahar Ben Jelloun – Carte blanche à l’ I.M.A. (video – link)
Ogni volta che sono di fronte a un muro, vedo una porta. È la mia ossessione. Bisogno di apertura, bisogno di luce in un mondo in cui l’oscurità ci minaccia.
Tahar Ben Jelloun: Écrire pour rester libre (video sottotitolato – link)