I timori sono il motore della mia scrittura; i miei libri cominciano con un senso di paura terribile, perché la paura è una sensazione forte che motiva tutto il processo creativo. Scrivere per me è paragonabile a un lungo viaggio che inizia con la paura e non si sa come va a finire.
L’ebraico è il solo linguaggio che posso usare per esprimermi, visto che i miei genitori mi mandarono a 15 anni alla Israel Arts and Science Academy. È complicato lo so, perché l’arabo è parte della mia identità.
Ma quando mi metto davanti al computer e rifletto sui miei personaggi, non penso al contesto nazionale, e non ho nessuna altra lingua.
Un tempo, i palestinesi non capivano il mio linguaggio ironico, diverso, e io ero triste e frustratissimo. Senza il sostegno della mia famiglia avrei smesso di scrivere.
Sono cresciuto leggendo autori arabi come Hodā Barakāt e Nagib Mahfuz ma anche israeliani come Amos Oz, Abraham Yehoshua, Edgar Keret e Yoel Hoffman. Gli scrittori non sono bandiere. Senza i libri di Natalia Ginzburg non avrei mai intrapreso la carriera letteraria. Gli unici ponti possibili sono quelli che costruiscono gli scrittori, il Medio Oriente farebbe bene a pensarci.
Nel villaggio di Tira non c’era una biblioteca, e a casa mio padre aveva solo libri di Lenin, Trockij e Marx. Venticinque anni fa, il mio insegnante di matematica, venne a casa e disse ai miei genitori che avrebbero aperto una scuola per studenti dotati a Gerusalemme: “Sarà meglio per lui lì”.
Sono stato ammesso e quando avevo l’età che ora ha mia figlia, ho lasciato la mia casa per andare in un collegio ebraico a Gerusalemme. Era così difficile, quasi crudele.
Una volta ho scritto che la prima settimana a Gerusalemme è stata la più difficile della mia vita.
Ricordo che la nostra insegnante di lettere ci ha chiesto di leggere “Il giovane Holden”.
È stato il primo romanzo che abbia mai letto. Mi ci sono volute diverse settimane per leggerlo e quando ho finito ho capito due cose che hanno cambiato la mia vita. La prima era che potevo leggere un libro in ebraico, e la seconda era la profonda consapevolezza che amavo i libri.
É il terzo romanzo che scrivo. Spero con Due in uno di riuscire a portare il lettore nelle strade di Gerusalemme, ad est come ad ovest, tenendo per mano il suo cuore.
Ho impiegato sei anni per scrivere questo romanzo. Ho iniziato nel 2004.
Non ho mai progettato romanzi; seguo solo i personaggi. Quando ho iniziato – e ho scritto ottanta pagine – era la storia di uno studente. E poi mi sono fermato. Poi ho iniziato a scrivere la storia di un avvocato, e poi ho smesso. E poi ho scoperto che facevano parte di una storia.
A volte mi sembra che noi – cioè, sapete, noi arabi in quanto arabi, ma in generale tutta l’umanità – non abbiamo di che andare fieri del nostro passato.
Due in uno
Lungo il percorso
Sembro più israeliano di un israeliano calzato e vestito. Sono sempre contento quando gli ebrei me lo fanno notare. – Non sembri affatto arabo – dicono. Alcuni sostengono che questo sia razzismo, ma io lo considero sempre un complimento. Un successo. Del resto era questo che volevo diventare: un ebreo.
Un tempo si capiva che sono arabo. Mi riconoscevano. Successe, per esempio, alla fine della prima settimana di scuola a Gerusalemme. Tornando a Tira, un soldato salì sull’autobus e mi chiese di scendere. Come piansi! Non mi ero mai sentito così umiliato. Per quello che mi trasformai in un esperto nella simulazione di identità.
Arabi danzanti
Con una narrazione in prima persona intrisa di quotidianità e dominata da uno sguardo acuto e mai convenzionale, Sayed Kashua ha scritto un romanzo forte e malinconico, che si nutre delle paradossali vicende del suo protagonista alternando ai lontani ricordi di infanzia, gli spunti grotteschi e disperati di un adulto che non si riconosce nella sua stessa cultura. Mentre su uno sfondo che non viene mai dimenticato, e che a tratti emerge con la prepotenza della sua brutalità, riecheggiano i toni cupi e drammatici di una spaccatura insanabile.
Da Tel Aviv ai Territori occupati, mentre esplode la furia della Seconda Intifada.
La storia quasi surreale di un giornalista arabo improvvisamente costretto a lasciare la capitale culturale di Israele per tornare nel villaggio dove è nato. L’io narrante va via per sottrarsi alla diffidenza dei colleghi e dei vicini israeliani ma il mondo che ritrova nel luogo di origine non gli dà assolutamente conforto, quella separatezza tra uomini e donne, l’approssimazione, i piccoli imbrogli, la polvere, la povertà, l’illegalità …
Fino all’ultimo grottesco colpo di scena, quando il governo israeliano annuncia che è disposto a cedere il suo villaggio all’Autorità palestinese provocando nel giornalista profonda angoscia.
La sua seconda prova letteraria, anche questa scritta “scandalosamente” in ebraico.
“Arabo israeliano”, quanto è umiliante questo nome, non importa quanti cercheranno di ammorbidirlo; francamente, non fa differenza se ci chiamiamo invece “cittadini palestinesi di Israele” o anche “la minoranza palestinese”… Qualunque sia il nome specifico adottato, il messaggio di sottolineatura rimane lo stesso:” arabo israeliano” – un ossimoro.
Quando, più di dieci anni fa, cominciai a scrivere una rubrica settimanale sul quotidiano Ha’aretz, abitavo ancora a Beit Safafa con mia moglie e i due figli più grandi. Da allora ho avuto altri due figli, mi sono trasferito dalla zona est a quella ovest di Gerusalemme, vari governi si sono avvicendati, varie guerre sono scoppiate, finite e scoppiate di nuovo. E io ho continuato a scrivere la mia rubrica settimanale.
Scrivere la rubrica era diventato il filo conduttore della mia vita. Dal momento in cui avevo spedito il pezzo alla redazione del giornale cominciavo a pensare a quello della settimana successiva. Non cercavo pensieri o idee, ma sensazioni. Il metodo che avevo adottato consisteva nello scrivere di ciò che mi aveva più emozionato durante la settimana appena trascorsa. Avevo affinato la mia sensibilità e seguivo i sentimenti: la paura, il dolore, la speranza, il desiderio, la rabbia o la gioia – promettendo a me stesso che avrei cercato di trasmettere quei sentimenti ai lettori attraverso delle brevi storie.
Durante questi dieci anni ho scritto di quasi tutte le persone che conosco e mi sono rimasti ben pochi amici, perché la gente intorno a me si è allontanata per non rischiare di veder pubblicati parole o fatti di cui mi aveva parlato. In questi anni ho angustiato la vita di mia moglie e dei miei familiari.
Credo di aver soprattutto cercato di sopravvivere alla realtà con l’aiuto delle parole; di mettere ordine nel caos e trovare una logica interna nelle cose che vedevo e vivevo intorno a me. In quelle pagine potevo scusarmi, urlare, avere paura, implorare, odiare e amare. Ma soprattutto cercare speranza, rendere la mia vita un poco più sopportabile. Questa è la ragione per cui ho continuato a scrivere finché ho avuto la speranza che alla fine tutto sarebbe andato a posto, che l’unica necessità era scrivere la vita come una storia. E cercarvi un lieto fine.
Sayed Kashua, aprile 2015
Deve essere meglio per loro qui, anche se loro ancora non lo sanno. E non devono saperlo.
Studiano in inglese e la lingua non li spaventerà mai come spaventa ancora me.
Qui staranno meglio, non c’è dubbio. Non dovranno sentirsi umiliati, non dovranno chinare la testa sotto il peso di un pressante soffitto di vetro. Qui, almeno cosí speravo, nessuno ricorderà loro continuamente che non appartengono, non sono graditi, qui non li costringeranno a interiorizzare che sono inferiori e non avranno bisogno di soppesare ogni parola a scuola, per strada e sul lavoro.
La traccia dei mutamenti
Nel protagonista di La traccia dei mutamenti è innanzitutto ravvisabile la stessa storia del suo autore, che, nel 2014, ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti: se all’inizio la decisione di Sayed Kashua era segnata solo da un temporaneo trasferimento per insegnare per un anno accademico negli Stati Uniti, immediatamente, a seguito dell’esplosione di nuove violenze, i biglietti di ritorno furono cancellati e la partenza si trasformò in un viaggio di addio.
Il libro si distacca dall’umorismo bruciante rintracciabile anche nei suoi lavori per la televisione; uno degli argomenti principali è la relazione tra arabi e israeliani, ma qui lo sguardo di Kashua abbandona il filtro dell’ironia, come se fosse stato raggiunto il limite dello scherzo, seppur esso sia sempre stato comunque serio e carico di risvolti.
Il protagonista del romanzo è un uomo che, a causa della malattia del padre, vicino alla morte, decide di tornare dagli Stati Uniti in Israele, nel suo villaggio, per assisterlo nella malattia dopo tanti anni di assenza.
Sa che questo viaggio non gli porterà sollievo, è preoccupato, come dimostra il viaggio in taxi dall’aeroporto Ben Gurion al suo villaggio, durante il quale è immediatamente mangiato dalla paura di un tempo, quella di essere arabo in territorio israeliano, esule nella stessa terra dov’è nato.
Un romanzo coraggioso, forse il tentativo sentito come necessario da Kashua di scendere nelle profondità della sua identità alla ricerca di un mondo a cui appartenere in maniera incondizionata, di cui essere parte davvero organica.
Matteo Moca
Sayed Kashua: “Sir, you are white” (video link)

Un Oriente più vicino – Due in uno, Sayed Kashua (estratto audio – link)

Un Oriente più vicino – Dance with waves, Anouar Brahem (video – link)

Un Oriente più vicino – Sonata a Kreutzer, Lev Tolstoj, L.V. Beethoven (video – link)