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Imre Kertész – Essere senza destino

[…] Si dice di me, a volte per elogiarmi, a volte per criticarmi, che io sia lo scrittore di un unico argomento, l’Olocausto. Non ho niente in contrario e — salvo alcune riserve — perché non dovrei accettare il posto a me assegnato sulle mensole delle biblioteche? In fondo, quale autore non è lo scrittore dell’Olocausto? Intendo dire che non c’è bisogno di scegliere l’Olocausto come tema principale per notare quella voce rotta che da decenni regna sull’arte moderna d’Europa. Dirò di più: non conosco un’arte autentica e di valore nella quale non si percepisca questa rottura, come se dopo una notte di incubi, l’uomo non si guardasse distrutto e perso intorno al mondo.

Io non ho mai considerato il complesso di problemi chiamato Olocausto come un conflitto inabrogabile tra tedeschi ed ebrei; non ho mai creduto che questo fosse il più giovane capitolo nella storia delle sofferenze degli ebrei. Non l’ho mai visto come un singolare deragliamento della storia, come un pogrom più imponente di quelli precedenti, come una premessa della creazione dello stato ebraico. Nell’Olocausto io ho riconosciuto la condizione umana, il capolinea della grande avventura dove è giunto l’uomo europeo dopo duemila anni di etica e di cultura morale.

Adesso dobbiamo riflettere soltanto su come proseguire da qui. Il problema di Auschwitz non consiste, per così dire, nel dover tirare le somme o meno, oppure nella necessità di mantenere il suo ricordo, di farlo sprofondare nel giusto settore della storia, nell’innalzare monumenti in memoria dei milioni di morti, e nel modo in cui innalzarli. Il vero problema di Auschwitz è il fatto che è “avvenuto”, e questo non lo possiamo cambiare né con le migliori né con le peggiori intenzioni […]

[…] Un giorno mi è arrivata per posta una grande busta marrone, inviata dal direttore del museo di Buchenwald, il dottor Volkhard Knigge. Ai suoi auguri sentiti ha allegato una busta più piccola. Mi ha scritto anticipatamente cosa conteneva, così da evitare di aprirla se me ne fossero mancate le forze. Nella busta ho trovato la copia del rapporto giornaliero sul contingente dei prigionieri del giorno 18 febbraio 1945. Sotto la voce «Decessi» ho letto della morte del detenuto numero 64.921, Imre Kertész, nato nel 1927, ebreo, operaio. I due dati falsi, l’anno di nascita e il mio impiego, vennero riportati così quando mi inserirono nel registro amministrativo del campo di Buchenwald. Mi dichiarai più grande di due anni per non essere inserito tra i bambini, fingendomi operaio anziché studente per apparire utilizzabile.

Già una volta sono quindi morto per poter vivere — e forse è questa la mia vera storia. Se è così, allora quest’opera nata da una morte infantile la dedico ai milioni di defunti e a tutti quelli che li ricordano. Ma in fin dei conti si tratta di letteratura, di una letteratura che secondo la Vostra Accademia è anche una testimonianza, e forse potrebbe essere d’aiuto al futuro, anzi, in cuor mio direi che servirà al futuro. Infatti, quando rifletto sull’effetto traumatico di Auschwitz, mi sembra di tornare ai quesiti fondamentali sulla vitalità e la creatività dell’uomo di oggi; e riflettendo in questo modo su Auschwitz, forse in modo paradossale medito piuttosto sul futuro che sul passato.

Discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura

Irme Kertész, nato a Budapest nel novembre del 1929, è stato deportato nel 1944 ad Auschwitz e liberato a Buchenwald nel 1945. Tornato in Ungheria, dopo aver conseguito la maturità, inizia a lavorare come giornalista per un quotidiano di Budapest. Quando nel 1951 il giornale diventa organo del partito comunista, Kertész viene licenziato. Dopo due anni di servizio militare, nel 1953 intraprende la carriera di traduttore. Traduce, infatti, Canetti, Freud, Hofmannsthal, Nietzsche, Joseph Roth, Schnitzler, Wittgenstein. Si cimenta anche nella stesura di opere teatrali. Nel 1960 comincia a lavorare a Essere senza destino, il romanzo che lo ha imposto all’attenzione del pubblico e della critica nazionale e internazionale.

Nei suoi scritti si ferma principalmente sulla storia dell’orrore nel ‘900.

«Ogni volta che penso a un nuovo romanzo penso a Auschwitz».

«I decenni mi hanno insegnato che l’unica via verso la liberazione passa attraverso la memoria […] Potrei contare sulle dita delle mani gli scrittori che hanno creato una grande letteratura sull’esperienza dell’Olocausto… è molto più frequente che lo rubino ai suoi depositari e ne facciano una merce scadente. Oppure istituzionalizzano l’Olocausto, ne stabiliscono il rituale politico-morale, ne elaborano il linguaggio – spesso falso – impongono alla divulgazione persino le parole che, quasi automaticamente, provocano negli ascoltatori-lettori il riflesso dell’Olocausto: insomma, lo straniano in tutti i modi possibili e impossibili […] Il testimone autentico un po’ per volta sarà soltanto d’impaccio, bisognerà rimuoverlo come una sorta di ostacolo».

Il fatto che si associasse il suo nome principalmente a Essere senza destino – che con Fiasco e Kaddish per il bambino non nato costituire una sorta di trilogia – lo portava a riflessioni amareggiate: «A Varsavia e altrove mi lasciano intendere a ogni piè sospinto di essere, in effetti, lo scrittore di Essere senza destino, considerando, come dire, inutili gli altri miei lavori. Devo accettare questo giudizio? Non lo accetto. Essere senza destino è certamente un lavoro originale, unico, ma va a integrare in modo completo il mondo, il mio mondo, insieme agli altri».

Difficile, e, per certi versi, insanabile il rapporto di Imre Kertész con il suo paese di origine. « […] Sento di appartenere interamente al mondo occidentale, in modo sempre più palese. Proprio non riesco a vedere il mondo con occhi ungheresi, est-europei. Quando si è parlato […] del perché la letteratura ungherese andasse a fecondare lo spirito tedesco, mi sono avveduto tutto a un tratto che si trattava della cultura borghese ungherese esiliata o distrutta, di questa fragile entità che la nazione rigetta come un corpo estraneo. ». L’ultima locanda. Diari 2001-2009

« […] Secondo le recensioni, le monografie e quant’altro in Ungheria la mia carriera di scrittore è una catastrofe, un declino permanente a partire da Essere senza destino, una lotta disperata e penosa contro la mia mancanza di talento. Deplorano piuttosto i miei saggi […] Così, dunque, non c’è altro da fare che seguire la sorte dei miei libri all’estero. Ed è interessante che possa accettare questa situazione senza lingua o tra le lingue come accetto anche la mia esistenza berlinese. Anche io morirò poi, anche i miei lavori scompariranno poi; vale la pena crearli, ma preoccuparsi per loro è superfluo. Vivono la loro vita particolare come e fino a quando possono».

Nel 2012 Imre Kertész annuncia la sua decisione di lasciare la sua eredità letteraria alla Akademie der Künste di Berlino, città alla quale era molto legato e nella quale si era trasferito: si tratta di 35 mila pagine di testi, manoscritti, lettere, diari scritti a mano, nonché bozze dei romanzi con correzioni autografe, quaderni di appunti.

essere senza destino

1961 – Ho iniziato a scrivere il romanzo da un anno. Passeggiavo nel parco su foglie secche e fragili. Sull’erba ancora verde, foglie rosse e gialle, e anche quelle rimaste appese ai tigli circostanti parevano tante mani avvilite. Sentivo che se fossi stato paziente con me stesso, sarebbe avvenuto il miracolo.

Kertész impiegò dieci a scrivere questo romanzo e per molto tempo non trovò un editore disponibile alla pubblicazione – quando finalmente, nel 1975, apparve in Ungheria, il romanzo venne totalmente ignorato e l’autore messo al bando. Dovette attendere il crollo del Muro per vedere riconosciuta la sua opera, in patria e all’estero.

Le difficoltà di resa linguistica di una prosa personalissima fu la causa di una tormentata storia di traduzioni. Sorstalanság fu tradotto due volte in tedesco, nel 1990 (Mensch ohne Schicksal) e nel 1996 (Roman eines Schicksallosen). La versione italiana (1999) si basa sulla seconda traduzione tedesca. Anche la prima traduzione inglese, dal titolo Fateless (1992), non piacque all’autore che, nel 2004, ne curò un’altra (Fatelessness).

« Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per motivi famigliari. Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi famigliari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni». Così, l’incipit di Essere senza destino: l’orrore non è dietro l’angolo, ci ha insegnato Kertész. È con noi, ordinario, pronto a sottrarci la normalità senza fare troppo rumore.

Lungo il percorso

Imre Kertész - video

Svante Weylee e Håkan Pienowski incontrano Irme Kertész – Berlino, 2011

Hannah Arendt - Film

La banalità del male – tratto dal film “Hannah Arendt” di Margarethe Von Trotta

Nella chiave di lettura di Kertész, coincidente con quella di Hannah Arendt, l’ideologia è, per sua natura essenziale, tendente al totalitarismo, distaccata dalla realtà, indipendente da qualsiasi esperienza empirica e pronta a ordinare i fatti in una dinamica di logica assoluta, che non esiste da nessuna parte nella realtà. L’analogia riscontrabile nel pensiero dei due autori riceve un’ulteriore conferma riconoscendo la somiglianza fondamentale tra il modo in cui Hannah Arendt, in “Eichmann a Gerusalemme”, coglie il carattere linguistico del pensiero liberato dall’esperienza reale, ovvero dell’«assenza di pensiero», e la genealogia dell’ideologia formulata da Kertész, espressa chiaramente in affermazioni come la seguente: «La dittatura dei valori, la xenofobia, l’antisemitismo sono prima di tutto una lingua

A. Radvánszky, L’epoca della tonalità si è conclusa una volta per sempre
Rivista di studi ungheresi, 2017

kaddish per un bambino mai nato

No! È così che il narratore, uno scrittore ebreo ungherese di mezza età, risponde al dottor Oblàth che gli chiede se ha un figlio. È la stessa risposta data alla moglie quando, anni prima, aveva espresso un desiderio di maternità. Il narratore si rivolge al bambino che non si è sentito di mettere al mondo. Il linguaggio si inerpica attorno alla cenere dei ricordi, al rimpianto che tormenta, fra labirinti di memorie e paradossi: pagine di inaudita potenza sulla Shoah, sul grande paradigma storico che ha rappresentato, sul senso di sopravvivenza alla catastrofe di Auschwitz, elemento centrale e fondante in ogni sua declinazione di ogni opera del’autore.

[ … ] smettetela di dire che per Auschwitz non c’è spiegazione, che Auschwitz è il parto di forze irrazionali non accettabili logicamente, perché il male ha sempre una spiegazione logica [ … ] ora state attenti perché quello che è realmente irrazionale e per il quale veramente non c’è spiegazione non è il male, al contrario: è il bene [ … ]

fiasco

Chiuso in un minuscolo appartamento nel quartiere popolare di una città senza nome, forse Budapest, un uomo, ‘il vecchio’, sta cercando di scrivere un romanzo. La sua attenzione si fissa sugli oggetti che lo circondano, descritti con ossessiva minuzia nel vano tentativo di penetrarne un senso nascosto, poi torna al passato, alla lettera di rifiuto e di totale incomprensione che ha accolto il suo precedente libro, Essere senza destino, poi di nuovo al presente, e alle dure necessità economiche che lo opprimono. Nulla, però, è davvero descrivibile, nulla è comunicabile. Il romanzo contenuto nel romanzo inizia con un viaggio, anzi con un arrivo: Kòves – ancora un richiamo a Essere senza destino – giunge in una città sconosciuta. Le autorità che lo accolgono gli consegnano un documento che rappresenta la sua identità provvisoria, un’identità di cui si appropria quasi inavvertitamente, giorno dopo giorno, con la complicità degli altri.

In una città dominata dall’angoscia, dalla paura di essere deportati – chiara l’allusione al regime di Ràkosi – Kòves incontra i residui di un’umanità che un tempo aveva avuto dei sogni, delle aspirazioni e che, adesso, deve confrontarsi con il grigiore di una realtà oppressiva.

diario dalla galera

Dal 1964 Imre Kertész ha tenuto questo Diario, il suo libro più intimo e rivelatore.

Sfogliando il mio diario di galera: dove sono i miei giorni comuni, dov’è la mia vita? Non esiste, oppure mi appare tanto vergognosa? … Insomma, cosa posso fare? Credo sempre di meno nella letteratura, nella finzione. L’uomo non consuma soltanto, egli viene anche consumato … E tuttavia cresce in me l’esigenza di prestare testimonianza, come se fossi l’ultimo che vive e che può proferire parola, e come se con le mie parole mi rivolgessi a coloro i quali sopravvivono al diluvio, alla pioggia sulfurea o all’era glaciale – il tempo biblico dei grandi e dannosi cataclismi, il tempo dell’ammutolimento. Il genere prende il posto dell’uomo, il singolo viene calpestato dal collettivo come un selvaggio branco di elefanti inorriditi in fuga.

il secolo infelice

A un critico che metteva in dubbio la coerenza tra i suoi saggi e le sue opere narrative, Imre Kertész, nell’introduzione a questo libro, risponde che tutte le sue opere parlano del medesimo soggetto: l’innavicinabile. Lo scrittore ungherese, nella propria esistenza, ha vissuto per ben due volte l’innavicinabile: incarnato nei campi di sterminio di Auschwitz e Buchenwald, dove è stato recluso, e nella situazione storica in cui ha iniziato a raccontare la sua esperienza nei lager, ovvero sotto il regime sovietico. “L’Olocausto e le condizioni di vita in cui scrivevo dell’Olocausto si erano fusi in modo indissolubile.”

L’Olocausto diventa allora un verbo coniugato al presente: è lo stato dal quale l’autore continua instancabilmente a inviarci messaggi e a costruire ponti per testimoniare la verità di quel “secolo infelice” che ha preceduto l’inizio di questo millennio e vi è poi confluito. Ecco perché, ci avverte lo stesso Kertèsz, gli scritti raccolti qui non possono essere considerati propriamente “saggi” ma, in modo più pregnante e corretto, devono essere definiti “approssimazioni”: resoconti lucidi, crudeli, talvolta ironici.