Amo sia il Carso sia il mare. La maggioranza dei triestini sloveni o sono di origine carsolina oppure della valle di Vipava (Vipacco).
Ma io sono nato davanti al mare, nel ghetto ebraico, in Via del Monte, che è anche in una poesia di Saba. Da bambino ho fatto l’esperienza del mare.
E poi non dimentico Baudelaire, “Homme libre, toujours tu chériras la mer!

Pahor (1)

Ai Mani di tutti quelli che non sono tornati

Necropoli è un’opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l’intrecciarsi di tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto [ … ]
Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare il suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza di altri – anche di altri grandi scrittori – passati attraverso quell’inferno.

Forse deve in parte quest’integrità alla sua vitalità, alla sua confidenza – che egli fa risalire alle sue origini popolari – con la fisicità elementare della vita [ … ]
Questa forza, questa armonia con lo scorrere anche lutulento dell’esistenza e con la materia – fragile, talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa – di cui siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi accanto a lui, da lavare pulire e seppellire.
Boris Pahor lo fa e lo narra con asciutta precisione fattuale, senz’alcun pathos umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate – tutte le ossa umiliate – un giorno esulteranno.

Un uomo vivo nella città dei morti – Claudio Magris

Lungo il percorso

venuti a galla

Ragionando sul titolo scelto per questo libro, Boris Pahor mi diceva – scherzando – come esso sembrasse appropriato non solo a indicare una situazione (come quella segnalata da Slataper, relativa agli sloveni a Trieste, e in Italia) che – anche se rimossa o tacitata – torna periodicamente a ripresentarsi come un problema che configura paradigmaticamente una questione più vasta, proprio perché di natura “civile”: una questione che tocca un nodo cruciale della democrazia moderna, quello delle minoranze.
Con evidente autoironia, Pahor aggiungeva che lo stesso titolo appariva quanto mai appropriato in riferimento a un autore, come era lui stesso, che – dopo una lunga attività svolta a Trieste e nel suo territorio – era venuto in primo piano solo dopo molti anni, quasi “di rimbalzo”, dopo che egli aveva già conquistato, però, una fama internazionale (in Francia, ogni suo libro, suscitava – già prima che da noi – echi e attenzioni non comuni).

Elvio Guadagnini

Immagine

II fascismo ricorse spesso anche a forme più sottili e pervasive di intolleranza, che si traducevano in quotidiane discriminazioni. Per esempio, le politiche scolastiche nella Venezia Giulia imposero l’italiano come lingua unica e bandirono ogni altra lingua e cultura per minare la sopravvivenza della coscienza nazionale delle minoranze.
I bambini furono le prime vittime di questa italianizzazione forzata.

La mia maestra, Anica Cok, era per me una seconda madre.
Quando i miei genitori mi dissero che non sarebbe più stata lei a insegnare, scoppiai in lacrime. Cambiare scuola e lasciare per sempre quella di Roiano fu un colpo durissimo.
Ormai la consideravo la mia scuola, ma soprattutto con la maestra Anica e i compagni di classe si parlava in sloveno, la lingua della mia famiglia, quella che avevo sempre sentito in casa. L’unica per me naturale. Improvvisamente tutto questo non esisteva più. Il fascismo ci aveva portato via le scuole, la lingua, persino i nomi. Tutto ciò che poteva esprimere, anche vagamente, la nostra identità nazionale fu cancellato.
In quel momento avvenne la vera svolta nella mia vita, quella che determinò la mia formazione umana e culturale. Da un giorno all’altro, mi ritrovai in un’atmosfera nebulosa: frequentare la scuola italiana e parlare esclusivamente in italiano a dieci anni fu per me un trauma. Praticamente smisi di apprendere, di imparare.

Figlio di nessuno. Un’autobiografia senza frontiere – Boris Pahor

narodni dom

Trieste, 13 luglio 1920. L’incendio del Narodni Dom, la casa della cultura slovena (link video)

Noi abitavamo in via Commerciale, non molto distante da piazza Caserma, oggi piazza Oberdan, dove si trovava il Narodni Dom.
Era un edificio di sei piani, molto bello e imponente. Era il primo degli stabilimenti multifunzione. Infatti, al suo interno raccoglieva un teatro, una biblioteca, diversi uffici, assicurazioni, una banca, un caffè e l’Hotel Balkan.
Era il luogo di incontri privilegiato per noi sloveni, il cuore stesso della nostra cultura. Per noi bambini era un posto speciale: il 6 dicembre di ogni anno ci andavamo per la festa di san Nicolò.

Quando appiccarono il fuoco, quel fatidico 13 luglio 1920, si vedevano da lontano le fiamme e il cielo che bruciava. Fu la nostra vicina Mitzi ad avvertirci dell’incendio. Abitava nell’appartamento sopra il nostro e noi bambini andavamo spesso a trovarla, perché lei – che faceva la sarta ed era quasi sempre in casa – ci raccontava le favole mentre cuciva. Ricordo che quel giorno Mitzi si precipitò giù dalla scale. «Il Narodni Dom sta bruciando» disse a mia madre. Ci raccontò terrorizzata che l’avevano cosparso di benzina. C’era gente, ripeteva, che si buttava giù dalle finestre.

Mia sorella Evelina e io, lei di 4 e io di 7 anni, uscimmo di corsa sulla strada per vedere che cosa stava succedendo. Non sono più riuscito a dimenticare ciò che vidi. Quello spettacolo si impresse indelebile nei miei occhi. Vedevo quell’orrore e non capivo perché alcuni stessero festeggiando.

Boris Pahor - Narodni Dom

Trieste, 13 luglio 1990. La nuova vita del Narodni Dom. Commemorazione (link video)

Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: «Viva! Viva!». Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: «Eia, eia, eia!». E gli altri allora di rimando: «Alala!».

Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi.
Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette. «Eia, eia, eia, alala!» gridavano come dei forsennati e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra.

Il rogo nel porto – Boris Pahor

documentario

Alle parole di Pahor s’intrecciano, in un susseguirsi di incontri, le riflessioni e le emozioni di quanti hanno letto i suoi libri e lo hanno conosciuto: lo scrittore Paolo Rumiz, la storica Marta Verginella, la direttrice del Centre européen du résistant déporté Valérie Drechsler, gli studiosi David Bidussa, Dunja Nanut e Franco Cecotti. (link video)

necropoli

“Qui mani di uomini attizzavano il fuoco nei forni: la terra di questo mondo è impastata di ceneri umane”
La deportazione nel campo di concentramento nazista di Natzweiler Struthof.
(link video)

fahrenheit party

Pahor (9)

Boris Pahor – “Che tempo che fa”